La maschera ambientalista della Transizione Ecologica è durata poco. Giusto il tempo di farsi “incoronare” da Beppe Grillo in persona, poi il ministro Roberto Cingolani per tutto il 2021 ha picconato ogni richiesta del mondo ambientalista, con un linguaggio che si è fatto via via più netto: sì agli inceneritori, sì al ritorno del nucleare, perfino contro gli studi umanistici – la famosa polemica sulle guerre puniche, che secondo Cingolani non “serve studiare quattro volte” perché “occorre cultura tecnica”.
Intanto il ministro chiede “meno contestazione e più collaborazione”, così come ha dichiarato in occasione della presentazione del manifesto “Lavoro e energia per una transizione sostenibile”. L’ultimo obiettivo del titolare del dicastero della Finzione Ecologica, come è stato ribattezzato da attivist* e ong, è il ritorno del gas. Con la scusa del “caro bollette”, Cingolani spinge affinché aumenti la produzione italiana di quel che era e resta una fonte fossile. Piuttosto furbescamente, il ministro fa precedere ogni presa di posizione da alcuni distinguo che mirano ad attenuare le polemiche. Succede lo stesso col gas, con Cingolani che spiega che non si tratta di ““aprire nuove trivellazioni però tra quelle esistenti e quelle inutilizzate gradirei aumentare più che posso la mia produzione di gas italiano risparmiando qualcosa sull’Iva e riducendo l’import”. È evidentemente uno stratagemma che non toglie forza al messaggio di fondo: la transizione energetica dell’Italia non può che basarsi sulle fonti fossili, le stesse che hanno creato la crisi climatica in corso.
Lo spettro della PCI list si aggira per l’Europa con i suoi gasdotti
A fornire un assist ai disegni del governo Draghi arriva, poi, l’Unione europea. Lo scorso 11 novembre la Commissione presenta al Parlamento i propri piani energetici. Nonostante i proclami di sostenibilità che dal Green Deal arrivano fino alla recente (e fallimentare) Cop26, l’Europa del futuro sarà alimentata ancora dal gas. Nello specifico Mechthild Wörsdörfer, funzionaria di lungo corso delle politiche energetiche comunitarie, illustra alla Commissione per l’industria, la ricerca e l’energia (ITRE, acronimo del francese Industrie, Recherche, Energie) la bozza del quinto elenco dei Progetti di Interesse Comune (PCI). Si tratta di una lista biennale, pubblicata nell’ambito dell’attuale regolamento TEN-E, che disciplina il modo in cui l’Unione europea seleziona le infrastrutture energetiche per finanziarle, promuoverle e ricevere autorizzazioni rapide. Tra queste nei PCI ci sono 30 mega impianti a gas per un valore complessivo di 13 miliardi di euro.
La ong internazionale GlobalWitness denuncia che “l’Europa intende sovvenzionare nuovi gasdotti fossili, terminali e impianti di stoccaggio che potrebbero importare gas che emetterebbe più carbonio di Austria e Danimarca messe insieme, secondo la nostra analisi”. L’elenco, poi, arriva proprio nel vortice della crisi dei prezzi del gas. Una crisi causata (anche) dall’eccessiva dipendenza del Vecchio Continente dalle forniture della Russia governata da Vladimir Putin, il quale ha recentemente ribadito, come scrive Agi, che “i rubinetti resteranno chiusi finché Bruxelles non avrà dato il via libera definitivo al gasdotto Nord Stream 2” (la contestata opera che collega la Russia alla Germania bypassando Polonia e Ucraina, si estende per 1230 km sotto il Mar Baltico ed è il più lungo gasdotto del mondo).
Eppure, ancora una volta, l’Unione europea sceglie di far pendere la bilancia del mix energetico verso un combustibile fossile che invece, come chiesto anche dall’Onu, dovrebbe dimezzare le proprie emissioni entro il 2030. “Lo stop al metano è lo strumento più potente che abbiamo per rallentare il cambiamento climatico nei prossimi 25 anni e completa gli sforzi necessari per ridurre l’anidride carbonica. I vantaggi per la società, l’economia e l’ambiente superano di gran lunga i costi”, ha affermato la direttrice esecutiva dell’Unep, Inger Andersen, durante la presentazione del report a metà maggio. Un appello disatteso a distanza di pochi mesi.
La bozza dei PCI resa pubblica dalla Commissione europea circolava da un po’, insieme alle promesse di spuntare dalla lista i progetti più problematici e impattanti. Così non è stato, tanto che sono rimasti ad esempio il gasdotto EastMed, il Baltic Pipe, il Gdansk LNG e il terminal GNL di Cyprus2EU. Non sorprende, dunque, che a diffondere la notizia nel nostro Paese sia stata una diretta interessata. Sul sito di Snam, una delle principali società di infrastrutture energetiche al mondo di cui lo Stato italiano è il principale azionista attraverso Cassa Depositi e Prestiti, il 23 novembre si apprende che “per quanto riguarda le iniziative che interessano l’Italia, nella lista sono inclusi i progetti per il gasdotto con Malta (lo vedremo, nda) e il cluster comprendente le infrastrutture di trasporto dal Mediterraneo orientale: EastMed, Poseidon e il rafforzamento della rete nazionale con la Dorsale Adriatica (più nota come Tap, nda) e la condotta Matagiola-Massafra. Della quinta lista fanno anche parte gli elettrodotti Thusis/Sils-Verderio Inferiore (Greenconnector) con la Svizzera, Tunisia-Sicilia (Elmed) e Corsica-Sardegna (Sacoi 3)”.
Negli stessi giorni oltre 100 organizzazioni della società civile di tutta Europa chiedono la rimozione dall’elenco dei progetti relativi al gas fossile. Il percorso, però, appare davvero in salita, e in più i tempi per provare a incidere sono ristrettissimi, come spiega l’europarlamentare dei Verdi Ignazio Corrao. “La Commissione ha fatto una proposta di progetti inseriti nella lista PCI sulla quale il Parlamento ha due mesi di tempo per elaborare una valutazione – afferma Corrao – Di fronte all’atto delegato della Commissione, è importante sottolineare che il Parlamento non avrà alcun diritto di emendarlo, ma solo di accettarlo o rifiutarlo. La nostra posizione è netta: lo rifiuteremo senza alcun dubbio, poiché quella basata sul gas è una produzione di energia fortemente impattante, che ovviamente non supportiamo in alcun modo. Investimenti e proposte di questo tipo vanno esattamente nella direzione opposta alla nostra idea di transizione verde. Perlopiù, si tratta di infrastrutture energetiche che saranno operative per decenni, oltre il 2050. I gasdotti, che continuiamo a finanziare con soldi pubblici, porteranno milioni di metri cubi di gas da bruciare aumentando le emissioni e peggiorando sensibilmente la qualità dell’aria delle nostre città. E’ un meccanismo diabolico: di fronte alla necessità vitale di abbassare le emissioni per salvare l’umanità, ci permettiamo di finanziare infrastrutture per importare sempre più gas e materie prime che producono ancora più CO2. E’ quanto mai evidente che l’Europa, e anche il governo italiano, stiano subendo una fortissima pressione da parte delle lobby del gas, che noi abbiamo il dovere di contrastare“.
Gela, la futura capitale italiana del gas: la PCI list e i suoi gasdotti in Italia
Che le pressioni per realizzare queste infrastrutture siano fortissime lo testimonia lo stato di Malta. La piccola isola nel cuore del Mar Mediterraneo intende uscire dall’isolamento energetico, e per farlo ha scelto di affidarsi alla pipeline lunga 160 chilometri che dovrebbe collegare la città maltese di Delimara alla siciliana Gela. Il progetto, affidato alla società di scopo MelitaTransGas, rientra al momento tra i PIC sostenuti dalla Commissione e dunque, dopo anni di rallentamenti, l’iter potrebbe ricevere a breve la definitiva accelerazione. Come ricorda The Guardian, il gasdotto Melita alimenterebbe la centrale elettrica di Delimara, su cui stava indagando la giornalista d’inchiesta Daphne Caruana Galizia quando è stata uccisa nel 2017. Una storia torbida e drammatica, ancora da chiarire, che potrebbe ricevere, seppur in modo indiretto, l’avallo dell’Unione europea.
Più in generale i nuovi progetti comunitari confermano il ruolo di cerniera energetica del nostro Paese. Al netto della presunta necessità di aumentare la produzione di gas “nostrano”, i gasdotti dei PIC nascono infatti dalla necessità di far convergere le esigenze di diversi Stati. Lo testimonia proprio il MelitaTransgasPipeline che viene descritto dal Ministero dello Sviluppo Economico come un “metanodotto onshore e offshore per l’interconnessione delle reti di trasporto di gas di Malta con l’Italia”. A beneficiare di questo scambio, comunque, sarà, almeno in un primo momento, soltanto Malta, dato che il trasferimento del gas è previsto soltanto dalla Sicilia e non viceversa.
“Potenzialmente, in seguito al completamento della prima fase del progetto – si legge sul sito creato ad hoc – potrebbe essere pianificata una seconda fase che consentirebbe un flusso bidirezionale del gas trasportato dal metanodotto. Questa seconda fase è ancora a uno stadio concettuale e soggetta a futuri studi di fattibilità e di sviluppo dei mercati”. Come a dire che è più probabile che Cingolani riconosca i propri limiti … Vale poi la pena sottolineare che nel frattempo sono già partiti gli espropri su sette chilometri del territorio gelese, che saranno occupati dal terminale di connessione e da tre stazioni per le valvole di blocco del gasdotto Gela-Delibera.
Quel che invece resta, specie se il progetto maltese dovesse andare in porto, è un’altra transizione realizzata a scapito di territori già sacrificati.
Gela, infatti, è nota per essere una città a sei zampe, per 60 anni legata al petrolio e alla presenza di Eni. Dopo la chiusura nel 2014 della raffineria, al momento l’unico impianto attivo è una “green refinery” alimentata ad olio di palma proveniente dall’Indonesia e grassi animali dall’America Latina – oltre a una 80ina di pozzi di perforazione che continuano a estrarre un petrolio che viene poi esportato. L’era dell’oro nero ha significato – come abbiamo raccontato recentemente nel dossier Follow the green. La narrazione di Eni alla prova dei fatti – eccessi di tumori e malformazioni neonatali, bonifiche mai completate, una dipendenza economica/sociale/culturale dal cane a sei zampe. A una comunità così malmessa l’unico scenario offerto è il passaggio dal petrolio al gas.
Che non solo aggiunge nuovi impatti ambientali ma non risolve neanche uno dei problemi per la popolazione causati dal vecchio ciclo produttivo. Oltre al gasdotto da Malta, nella cittadina siciliana dal 2004 è attivo il GreenStream, il metanodotto che parte dalla Libia, più precisamente dall’impianto di trattamento di Mellitah, e attraverso 520 chilometri di tubi nel fondo del Mar Mediterraneo arriva alla stazione di rifornimento di Gela. Costato ben 6,6 miliardi di dollari, il terminale di Gela vedeva impiegate a fine 2019 appena 12 persone. Inoltre a gestire il gasdotto è la GreenStream BV, composta a metà da Eni North Africa BV, a sua volta posseduta dalla Eni International BV. Tutte le società hanno sede legale ad Amsterdam, in un Paese a fiscalità agevolata. Infine il GreenStream, essendo un’opera strategica realizzata in due Stati, è esente dal pagamento delle royalties – vale a dire la quota sulla produzione che le società fossili devono versare alle istituzioni locali in cambio delle concessioni. Lo stesso avverrà (avverrebbe) per il gasdotto maltese.
Analogo trattamento sarà inoltre riservato ad Argo-Cassiopea, il terzo gasdotto ormai in procinto di essere realizzato nelle coste tra Licata e Gela. A costruirlo sarà Eni, anche in questo caso, che in questo modo intende trasportare il metano da mare a terra. Dopo il via libera del Comune lo scorso settembre, i lavori per la realizzazione dell’infrastruttura occuperanno presumibilmente tutto il 2022. Nel PiTESAI, il Piano che dovrebbe essere lo strumento di pianificazione generale delle estrazioni di idrocarburi nel nostro Paese, il giacimento Argo-Cassiopea viene indicato come “sicuro”, e dunque da esplorare/trivellare. Insomma: nel giro di una manciata di anni Gela si ritroverà con ben tre gasdotti, a distanza di pochi metri l’uno dall’altro. Una nuova Metanopoli – la città del metano sorta nel 1952 a San Donato Milanese e voluta da Enrico Mattei in persona – oppure la futura capitale italiana del gas? La cittadina siciliana non merita questo destino.
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