• Opinioni non richieste sulla Sicilia: il caso Calenda

    Opinioni non richieste sulla Sicilia: il caso Calenda

    Che l’amministrazione siciliana non brilli per efficienza e rapidità d’esecuzione non è di certo una novità. Che le responsabilità politiche della classe dirigente siano storicamente utilizzate come pretesto per attaccare la Sicilia e i siciliani senza distinguo è altrettanto noto.

    Recentemente ci ha pensato il leader di Azione, Carlo Calenda, a rilanciare questa retorica paternalista e qualunquista, autoproclamandosi paladino di una Sicilia che va distrutta per essere salvata.

    Il 26 agosto, sul palco della Versiliana, durante un’intervista con Alessandro Sallusti, Calenda non ha usato mezze misure: «le Regioni vanno combattute perché sono diventate un centro di contropotere e di gigantesco clientelismo oltre ogni idea. Vanno disarticolate, gli va levata la gestione dell’acqua; le municipalizzate devono essere accorpate». E poi, ha rincarato la dose: «alcune Regioni vanno proprio sciolte e commissariate con un prefetto». Per poi concludere fieramente «la Sicilia non deve mai più avere un Parlamento regionale».

    Una posizione che non sorprende più di tanto, considerando le sue parole di febbraio scorso, quando bollava l’autonomia siciliana «un esperimento fallimentare per i siciliani», auspicando che ogni competenza venga sottratta al governo regionale e trasferita allo Stato con poteri sostitutivi, «altrimenti la Regione non si riprenderà mai».

    Calenda vorrebbe, quindi, ergersi a difensore della causa siciliana, cercando di mettere in evidenza quelle che lui considera le cause principali dei mali della nostra isola. E, come un deus ex machina risolutore – a suo dire – del dramma siciliano, cala dall’alto la proposta del “tutto il potere all’Italia”. Peccato che la sua crociata, piuttosto che andare al cuore del problema, offenda un’istituzione secolare.

    Forse Calenda ha dimenticato che il Parlamento siciliano, la più alta forma di rappresentanza politica della Sicilia, è uno dei più antichi parlamenti al mondo e il più antico in Europa, risalente addirittura al 1097. Un’istituzione che è stata anche protagonista in diversi momenti cruciali della storia dei siciliani, come, ad esempio, nel 1282, quando sostenne la guerra del Vespro contro il dominio angioino sull’isola.

    Anni e anni di storia istituzionale, quindi, che Calenda vorrebbe commissariare o, addirittura, cancellare per sempre, senza porre l’accento sul fatto che non sia l’istituzione in sé a costituire il terrificante nemico dei siciliani, ma la classe politica che la abita. Un ceto dirigente scandaloso non in quanto tale, ma perché reo di perseguire gli interessi dei partiti italiani come unico credo, scavalcando le necessità dell’isola in favore dell’economia del Nord. Il risultato? Il Parlamento siciliano è stato trasformato in una cassa di risonanza per chi, da Roma, detta legge sull’isola.

    Si potrebbero scrivere fiumi di parole sugli innumerevoli casi in cui la politica siciliana, non per negligenza ma per colpevole volontà, ha svenduto se non addirittura regalato risorse al governo centrale. Per esempio, quando a metà degli anni ‘10 Crocetta decise di concedere allo Stato le risorse recuperate dall’evasione fiscale, dal valore di mezzo miliardo all’anno, ignorando la sentenza della Corte costituzionale che aveva stabilito che quei fondi dovessero restare in Sicilia perché Regione a Statuto speciale.

    Oppure si ricordi la revoca di 338 milioni di euro di fondi FSC del programma 2022-23, destinati a 79 progetti per il contrasto della siccità, del dissesto idrogeologico, per la realizzazione di nuovi impianti di rifiuti e molto altro ancora: revoca dovuta ai ritardi nella progettazione degli interventi.

    E sì, la Sicilia è ultima per qualità della rete ferroviaria – come spesso Calenda denuncia, anche sui suoi profili social – ma la responsabilità va attribuita allo Statuto e al Parlamento siciliano, o a chi sceglie consapevolmente di sottrarre fondi all’isola per destinarli ad aree già ricche? La risposta è scontata, come dimostrano la riduzione del 70% – solo per il biennio 2025-2026 – dei finanziamenti destinati a Province e Comuni per la manutenzione delle strade, la rigenerazione urbana e la messa in sicurezza di edifici e territori (circa 800 milioni di euro) e l’esclusione dal PNRR di due lotti della ferrovia Palermo-Catania (pari a 588 milioni): risorse poi dirottate per finanziare interventi in Regioni come Liguria e Veneto.

    In tutte queste occasioni, anche se, purtroppo, se ne potrebbero elencare molte altre, alla Sicilia sono state sottratte ricchezze utili a migliorare la condizione sociale ed economica dell’isola, e attribuirne la causa allo Statuto o all’assetto amministrativo significa spostare l’attenzione dal vero problema. A danneggiare la nostra isola sono politici che agiscono in accordo con quanto sancito dalle segreterie di partito e dal governo centrale, utilizzandola come polo di estrazione di risorse umane, energetiche ed economiche senza dare nulla in cambio. Queste figure, se fanno “bene” il proprio lavoro, vengono adeguatamente ricompensate. Vedasi quanto accaduto a Musumeci, uno dei peggiori presidenti della storia siciliana, ritrovatosi con un ministero a Roma nonostante i danni fatti in Sicilia.

    La soluzione, dunque, è ascoltare il prode Calenda e rassegnarci all’idea che «i siciliani hanno bisogno che lo Stato si occupi direttamente di loro, perché l’Assemblea regionale non lo fa»? La Sicilia dovrebbe, dunque, affidarsi, come un figliol prodigo, a uno Stato che guarda all’isola come a un hub energetico e da cui continuare a estrarre risorse, restituendo in cambio solo sfruttamento e desolazione? Uno Stato che, attraverso i tre grandi poli petrolchimici della fascia sud-orientale, continua a generare morte da mezzo secolo? O ancora, uno Stato che non adotta misure capaci di impedire che ogni anno migliaia di giovani siano costretti ad andarsene dalla propria terra a causa di salari bassi, servizi scadenti e una qualità della vita tra le peggiori della penisola?

    Decisamente no. La soluzione – indicata da chi in Sicilia ci vive davvero – non è chiudere i battenti e appellarsi a Montecitorio, ma liberare l’Ars da tutti coloro che, come visto, non hanno alcun interesse reale nel costruire politiche capaci di generare progresso economico e sociale sull’isola, soprattutto quando questo rischia di intralciare il loro biglietto di sola andata verso Roma. E, ancora di più, da chi raccoglie voti a suon di promesse altisonanti per poi insultare le stesse istituzioni che li hanno accolti. Che il prode Calenda si rassegni, dunque. Non sta a lui salvare la Sicilia, è compito dei siciliani liberarsi dalle proprie catene.

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