• L’UE alla ricerca di una prospettiva geopolitica

    L’UE alla ricerca di una prospettiva geopolitica

    Siamo alle botte. Questa frase pronunciata da un uomo pavido e sprovveduto nella drammatica estate del ‘39 è passata alla storia, salvo risuonare terribilmente attuale ai giorni nostri. È inutile nascondersi sotto le coperte, coprendosi il volto con le mani, nella speranza di riuscire a scacciare i mostri che si annidano sotto il letto. La pax americana ha fatto il suo corso, mandando in frantumi il sogno ben poco lucido di chi credeva nell’imperitura egemonia globale a stelle e strisce. Il mondo è entrato in una nuova fase di guerra guerreggiata. Dal golfo del Messico al mar Cinese meridionale, passando per l’intero continente africano, il Mediterraneo allargato, l’Asia Occidentale, l’Ucraina e chi più ne ha più ne metta, si sta giocando una partita che va ben al di là di semplici contese tra potenze locali.

    Se Mosca e Pechino tessono rapporti con Cuba e Venezuela per insidiare il giardino di casa yankee, gli Stati Uniti rispondono afferrando i cinesi per la collottola, cacciandoli via dal canale di Panama e sottraendo l’Armenia alla storica influenza russa. Israele sta giocando una terribile partita a Risiko per rompere l’accerchiamento sciita, in una regione in cui potenze locali e globali sono coinvolte per ridisegnare l’equilibrio di potere a proprio vantaggio whatever it takes.

    India e Turchia, pur essendo legate agli Stati Uniti da accordi securitari, perseguono i propri fini giocando su più tavoli con una disinvoltura tale da far cadere la mascella all’élite del Vecchio Continente. Si potrebbe andare avanti per giorni chiamando in causa altre grandi potenze, ragionando su come ognuna di esse agisca nei quadranti più disparati e interferendo per procura in conflitti che a chiamarli locali ci vorrebbe un bel coraggio e una buona dose di incoscienza: ma tutto ciò ci porterebbe lontano.

    Il mondo è il palcoscenico. Usa, Cina, Russia, Turchia, India e Iran sono i protagonisti dello spettacolo, seguiti nelle retrovie da una serie di comprimari desiderosi di ritagliarsi un posto in prima fila. Guerra mondiale atto terzo, o forse è meglio dire Guerra fredda parte seconda. L’Unione Europea negli ultimi 30 anni è rimasta seduta sugli spalti, rannicchiata nella sua poltrona ormai logorata da 3 lustri di austerity, incrociando le dita nella speranza che nessuno dal palco la inviti a occupare la scena in questa commedia nera.

    Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, e per troppo tempo l’establishment Ue si è tappata le orecchie ripetendosi compulsivamente che la Storia fosse ormai giunta ai titoli di coda, che la globalizzazione fosse ineluttabile e – cosa ancor più grave – accettata da tutti i popoli del mondo, finalmente pronti ad essere assimilati dall’Occidente per volontà del libero scambio e della dilatazione dei mercati finanziari.

    Pare però che il vento stia cambiando, o che almeno qualche lieve folata stia soffiando in direzione contraria a quanto deciso da Washington per l’Europa negli ultimi 80 anni.

    La condizione di mero attore economico, mai soggetto geopolitico autonomo e unitario, sta iniziando a stare stretta a diversi stati dell’Unione, troppo deboli per smarcarsi dall’hard power statunitense con le proprie sole forze e ancora troppo frammentati per immaginare una prospettiva strategica collettiva indipendente dagli Usa.

    Il presente testo si pone l’obiettivo di delineare un quadro essenziale, altresì necessario, di ciò che è stato il Continente dalla fine del secondo conflitto mondiale, delle criticità che lo caratterizzano, delle prospettive che si aprono alla luce dei flebili tentativi di costruire finalmente un’Europa politica e delle possibili ricadute per la Sicilia.

    Si avvisano i naviganti che le pagine che seguiranno non sono fatte per gli amanti della pappa del cuore, per coloro che gradiscono disquisire su ciò che avrebbe dovuto essere o su ciò che dovrebbe essere in un mondo ideale, in cui i conflitti sono il frutto della mente perversa di pochi pazzi che hanno soggiogato e raggirato popoli inermi, mentre la pace a tutti i costi è l’unica soluzione accettabile.

    Piuttosto, si propone di ragionare a partire delle reali condizioni materiali in cui ci troviamo immersi, provando a tracciare la rotta di un futuro possibile, senza pretese di onniscienza. È assai complicato vedere la riva naufragando in mezzo alla tempesta, ma rinunciare a nuotare sarebbe una condanna all’annegamento.

    Gli USA in Europa e il peso della storia

    Non farà sobbalzare nessuno affermare che l’Unione Europea è pienamente dentro la sfera d’influenza statunitense. Ci si può definire partner, province o colonie degli Usa a seconda della prospettiva politica e ideologica. Cambia la forma, ma non la sostanza; l’Europa dal ‘45 ad oggi è il diamante dell’impero a stelle e strisce, che piaccia oppure no. Il motivo è presto detto: le principali potenze del pianeta si suicidarono nei due conflitti mondiali, venendo occupate militarmente e cadendo nelle braccia dello Zio Tom all’alba della guerra fredda. Da allora, il dominio Usa sul Continente si esprime in numerosi aspetti.

    Salta subito all’occhio lo strumento bellico, con numerose installazioni militari che spaziano dal Portogallo alle porte dell’Ucraina, in cui vivono stabilmente decine di migliaia di soldati statunitensi. Per dare un’idea, soltanto le basi “tedesche” in Germania ne ospitano circa 36 mila¹. Segue a ruota la commistione della Cia con i servizi segreti e i partiti dei singoli Stati, che ha permesso all’élite yankee di determinare la politica secondo novecentesca con grande disinvoltura (per maggiori informazioni chiedere della Gladio).

    Da non sottovalutare nemmeno l’elemento economico declinato in varie forme, dalla dipendenza dagli Usa come principale mercato di esportazione della produzione europea al vitale ruolo giocato dal dollaro come moneta di scambio internazionale (leggasi arma di ricatto) ², fino al controllo dei mercati Ue da parte di fondi d’investimento statunitensi.
    Dulcis in fundo, l’innovazione tecnologica in tutti i settori ad alto valore aggiunto e la comunicazione digitale e satellitare degli Stati membri dell’Unione Europea sono pienamente ancorate a quanto accade nella Silicon Valley, rendendo la ricerca scientifica anche in ambiti strategici al traino delle Big Tech americane.

    In concreto, tutti questi fattori determinano la totale privazione di autonomia strategica tanto dell’Unione Europea nel suo complesso – su cui si dirà di più andando avanti – quanto delle singole Nazioni che la compongono.

    Gli Stati Ue possono quindi gestire la loro politica interna, ma non hanno la facoltà di determinare la propria postura internazionale o di scegliere i partner commerciali su risorse critiche. Né tantomeno sta a loro stabilire chi siano i paesi alleati e rivali di lungo corso. Tutto ciò è di competenza esclusiva di Washington. In altre parole, non hanno l’autorità di organizzare gli aspetti cruciali della vita politica per garantirsi la sopravvivenza come entità a sé stante.

    Per ipotesi, qualora un primo ministro italiano decidesse di sottoscrivere un memorandum per le Nuove vie della Seta con Pechino, questi verrebbe tirato per le orecchie, e Roma sarebbe costretta a stracciare quell’accordo alla sua scadenza senza contemplarne minimamente la possibilità di rinnovo (consultare Giuseppe Conte per avere conferma di questa ipotesi).

    Si supponga poi che la Germania costruisca un gasdotto che arrivi fino al cuore della Russia, realizzando il peggiore degli incubi per gli strateghi britannici prima e statunitensi poi, ossia un’asse che colleghi l’industria tedesca con gli idrocarburi russi in un enorme spazio politico a cavallo tra due continenti. Quel gasdotto potrebbe venir sabotato, guarda caso proprio come accaduto nel settembre del 2022, con tanto di commento di Victoria Nuland, esponente democratica al tempo sottosegretaria di Stato per gli affari politici USA, che accolse la notizia dichiarando al Senato «penso che l’amministrazione Biden sia molto soddisfatta di sapere che il Nord Stream 2 sia ora un pezzo di metallo in fondo al mare³».

    I due esempi qui riportati, lungi dall’essere casi isolati, rendono discretamente l’idea di quanto sia salda la morsa degli Usa sul continente, il che è un fatto assodato. Stabilire se questo sia un bene o un male nel complesso e, nella seconda ipotesi, immaginare delle vie di uscita, è tutt’altra faccenda.

    Ciò che si può dare per certo è che l’asse Usa-Ue è sempre più un gioco a somma zero. Durante la guerra fredda la classe dirigente europea – Germania parzialmente esclusa – trasse nel complesso non pochi benefici nel trovarsi sotto l’ombrello statunitense. La protezione militare dall’Unione Sovietica, l’animosità della Cia nell’evitare la rivoluzione nella parte Occidentale del continente attraverso la “lotta non convenzionale al comunismo⁴” e gli ingenti investimenti per la reindustrializzazione sono validi esempi del dominio statunitense esercitato attraverso strumenti di soft power, che fecero più che comodo alla borghesia di casa nostra.

    Dal 2008 in avanti la situazione è ben diversa. La crisi dei mutui subprime è stata volutamente scaricata sulle economie europee, scaraventando fuori dalla Storia le politiche liberali e socialdemocratiche incarnate dai partiti tradizionali di Centro- destra e Centro-sinistra, scivolati in una spirale discendente che li ha condannati alla marginalità. I paesi Ue sono stati obbligati ad attuare enormi tagli al welfare per calmierare la crisi debitoria. A farne le spese più di tutti è stata la Grecia, finita in default. La perdita d’importanza del quadrante Mediterraneo per l’approccio strategico yankee, ben più interessati a cosa accade nell’Indo-Pacifico, ha lasciato i paesi rivieraschi del tutto impreparati a confrontarsi con la crescente presenza cinese, russa e turca. La guerra commerciale alla Repubblica Popolare e quella militare per procura alla Russia sul suolo ucraino hanno colto alla sprovvista le cancellerie europee, costringendo molte di loro ad agire contro i propri stessi interessi.

    L’accordo con l’amministrazione Trump sui dazi siglato lo scorso 27 luglio è esemplificativo. Un affare a esclusivo vantaggio di Washington senza se e senza ma, che obbliga l’Ue ad incrementare gli investimenti diretti esteri verso gli Stati Uniti in assenza di contraccambi di alcuna sorta. Una plateale ammissione di subalternità, così commentata dall’ormai ex Primo ministro francese, Francois Bayrou, con la solita retorica revanscista che contraddistingue i francesi: «è un giorno buio quando un’alleanza di popoli liberi, uniti per affermare i propri valori e difendere i propri interessi, decide di sottomettersi⁵».

    Immaginare un riequilibrio dei rapporti di forza nel diseguale rapporto Usa-Ue nel breve periodo è fuori discussione – domani chissà – per ragioni che vanno anche al di là della forza degli Stati Uniti, che comunque restano la prima potenza del pianeta e ancora capaci di incidere nella politica interna in Europa. Perciò è necessario ragionare sulle debolezze strutturali dell’Unione, ai nostri giorni freno alla costruzione di unità e autonomia politica.

    L’entropia europea

    Partiamo da un presupposto: l’Unione Europea oggi è un soggetto economico e nient’altro, sicuramente non un soggetto politico. Non è tale per vari motivi, in primis perché si trova dentro una sfera d’influenza altrui, e quindi non può perseguire obiettivi propri e dissonanti dagli interessi dell’egemone. Questa è la principale ragione esogena.

    Cionondimeno vi sono alcuni fattori endogeni da prendere in esame. Lo spazio europeo è, infatti, abitato da una vasta gamma di attori statali che hanno prospettive di sviluppo economico, industriale e tecnologico spesso divergenti. Non a caso i dazi applicati dagli Stati Uniti, più aspri nel campo dell’alluminio e dell’acciaio, hanno rappresentato una mazzata più per alcune economie –soprattutto quella tedesca – che per altre. Le diverse necessità economiche sono state alla base dell’incapacità di costruire, a livello europeo, un percorso comune in ricerca e innovazione, poiché i singoli Stati non hanno mai accettato di fondere le proprie principali aziende per paura che queste perdessero il proprio carattere “nazionale”, senza però riuscire a garantire gli stessi investimenti pubblici messi a disposizione dagli Usa e dalla Repubblica Popolare.

    Il risultato è che le aziende cinesi e americane, dal peso specifico e dalla liquidità ben superiore, hanno surclassato le imprese di casa nostra, rendendole del tutto dipendenti anche in ambiti dalle immediate ricadute militari, come l’intelligenza artificiale o la comunicazione satellitare. Una mancanza dell’élite continentale, figlia di una retorica liberista che ha messo su un piedistallo la sacralità della libera concorrenza e che ancora oggi fatica ad essere scacciata dai corridoi di Bruxelles, seppur il rapporto Draghi abbia riconosciuto la cecità strategica in questa faccenda: «in alcuni casi la Commissione è stata attaccata per non aver consentito fusioni che avrebbero creato aziende di dimensioni sufficienti per investire e competere con le aziende superstar cinesi e americane⁶».

    Persistono poi delle inevitabili differenze linguistiche, storiche e culturali, che rendono faticoso per molte persone pensare all’Europa come a uno spazio davvero comune in cui identificarsi, fatto salvo il cosmopolitismo che caratterizza alcune frange della sinistra liberale, che vede nell’Erasmus e nell’insegnamento dell’inglese gli strumenti per abbattere qualsiasi barriera identitaria. Pesa poi il fatto che l’Unione Europea e i suoi organi decisionali siano stati identificati dai partiti nazionali come il capro espiratorio per giustificare alle proprie opinioni pubbliche la riduzione del potere d’acquisto e il peggioramento delle condizioni di vita in tutto il Continente; il che è vero solo in parte.

    Infine, tra le principali ragioni endogene alla base dell’alto tasso di entropia dell’Unione vi è il fatto che gli interessi strategici dei singoli Stati – ammesso che questi possano perseguirli, il che allo stato attuale è pura fantasia – sono in molti casi in evidente contrapposizione.
    La storia recente può fornire numerosi esempi significativi. Il golpe in Libia del 2011, foraggiato dalla Francia, rappresentò un’opportunità per i transalpini e una catastrofe per lo Stato italiano, che da tempo coltivava rapporti più che amichevoli con Gheddafi, la cui deposizione ha causato una diminuzione della già fragile influenza italiana nella “quarta sponda”.

    Ancor più emblematica è la vicenda ucraina. Stati come Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania e Romania spingono per intervenire in difesa di Kiev perché hanno come necessità vitale l’allontanamento della Federazione Russa dai propri confini, per evitare di finire con le buone o con le cattive dentro la sua sfera di influenza, cosa più volte accaduta nel corso dei secoli. La sopravvivenza dell’Ucraina come Stato indipendente è per i paesi baltici la strategia da perseguire per garantirsi una barriera che li separi dal Cremlino. Tutt’altra faccenda è per gli Stati dell’Europa occidentale, in particolare Italia e Germania, fortemente dipendenti dagli idrocarburi russi. Questi paesi – al di là della retorica pacifista o atlantista a seconda dei casi – non hanno alcun interesse a schierarsi a favore di una delle due parti in causa, e sono stati tirati in mezzo solo sotto richiesta degli Usa.

    Per farla breve, l’Unione Europea non aveva e non ha un interesse strategico comune a tutti gli Stati membri sulla guerra russo-ucraina, e nessun soggetto interno all’Ue ha avuto la forza di imporre a tutti gli altri la direzione da seguire. La decisione sull’approccio europeo è stata imposta da un attore formalmente esterno, cioè gli Stati Uniti, le cui scelte hanno sorriso alle necessità strategiche di alcuni e non a quelle di altri per ragioni del tutto indipendenti dalla volontà dei singoli Stati. Non a caso, gli accordi per la possibile pace hanno un carattere bilaterale tra Mosca e Washington, mentre tanto i paesi Ue quanto l’Ucraina sono costretti a guardare lo studio ovale dalla finestra.

    Emblematiche risuonano le parole pronunciate da Mario Draghi lo scorso 22 agosto al Meeting Rimini 2025: «Per anni l’Unione Europea ha creduto che la dimensione economica, con 450 milioni di consumatori, portasse con sé potere geopolitico e nelle relazioni commerciali internazionali. Quest’anno sarà ricordato come l’anno in cui questa illusione è evaporata. Abbiamo dovuto rassegnarci ai dazi imposti dal nostro più grande partner commerciale e alleato di antica data, gli Stati Uniti. Siamo stati spinti dallo stesso alleato ad aumentare la spesa militare, una decisione che forse avremmo comunque dovuto prendere -ma in forme e modi che probabilmente non riflettono l’interesse dell’Europa. L’Unione Europea, nonostante abbia dato il maggior contributo finanziario alla guerra in Ucraina, e abbia il maggiore interesse in una pace giusta, ha avuto finora un ruolo abbastanza marginale nei negoziati per la pace».

    Al netto di ciò, va evidenziato che negli ultimi tempi, dopo un trentennio di cronica narcolessia, la classe dirigente europea ha mostrato dei segnali di risveglio, dovuti alla tardiva ma più che mai necessaria presa di coscienza della marginalità del Vecchio Continente nella scena politica internazionale.

    La rotta è segnata?

    Via il dente via il dolore. Il primo elemento da prendere in esame per ragionare su un possibile cambio di postura dell’Unione è il tanto discusso piano di riarmo.
    Il progetto non è di certo esente da criticità, a cominciare dagli assai probabili tagli al welfare che potrebbero finanziarlo. Va poi detto che un aumento delle spese militari non garantirà di per sé l’autonomia strategica, in assenza di sistemi di produzione di armamenti standardizzati e integrabili in tutti gli eserciti dell’Unione. Inoltre, gli stati maggiori dei paesi Ue ad oggi non hanno le competenze logistiche e d’intelligence per operare insieme al di fuori del cappello della Nato.

    Al netto di tutto ciò, bisogna ammettere che un’Unione Europea priva di armamenti propri (e non di fabbricazione americana) non potrà mai essere politicamente indipendente dagli Stati Uniti, a meno che questi non implodano dall’interno da un giorno all’altro, scenario al momento a dir poco fantasioso. D’altro canto, un Europa più armata non è necessariamente un Europa più forte e coesa, ma ciò costituisce l’ineluttabile premessa di un qualsivoglia futuro tentativo di autonomizzazione dalle grinfie di Washington.
    Senza un’industria militare, un sistema satellitare, un’IA di matrice continentale e un’integrazione degli eserciti non si canta messa. Questi fattori – e non solo questi, per carità –
    fanno da premessa alla definizione di un piano strategico europeo per affrontare la guerra grande in corso. Smettere di essere vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro è il tentativo. Andrà in porto? Impossibile dirlo oggi.

    Non meno importante è il proposito, seppur ancora in fase embrionale, di superare il voto all’unanimità richiesto al Consiglio Europeo negli ambiti più disparati, incluse la politica estera e la sicurezza comune. La regola del veto, concepita in origine per salvaguardare la sovranità nazionale, è da tempo percepita come un fattore di paralisi delle istituzioni su molte questioni cruciali. Si prendano in considerazione i rallentamenti nell’applicare alcuni pacchetti di sanzioni alla Russia, spesso frenate dal governo ungherese, o le prese di posizione contro Israele, mai tradottesi in azioni concrete. Va poi tenuto conto che nel corso degli anni il voto all’unanimità è diventato de facto sempre più opprimente. L’allargamento dell’Ue ad Est ha moltiplicato il possibile numero di veti, anche in virtù dell’ingresso nell’Unione di Stati dagli interessi strategici niente affatto coincidenti.

    Da qui l’esigenza di superare questo strumento in favore di un’estensione totale o quasi della “maggioranza qualificata”, già applicata in alcuni settori. Questa prevede che, per approvare qualsivoglia decisione, basta il consenso del 55% degli Stati membri che rappresentano almeno il 65% della popolazione. Ciò comporterebbe che, in un’Ue che legifera sistematicamente attraverso la maggioranza qualificata, sarebbero i paesi di grandi dimensioni ad aver più voce in capitolo. Non a caso, il fronte riformatore è attualmente guidato da Germania e Francia, affiancate da Italia, Spagna, Paesi Bassi, Belgio e da diversi paesi nordici e baltici, mentre Stati come Slovacchia, Polonia o Ungheria restano molto più tiepidi, paventando l’applicazione di uno strumento coloniale da parte degli Stati occidentali⁷.

    In generale, va registrato come negli ultimi mesi si siano susseguite dichiarazioni di diversi esponenti di primo piano, come Von der Leyen e soprattutto Draghi, che hanno esplicitamente posto il problema di costruire un’Unione Europea politica. L’obiettivo è chiaro: evitare che il continente venga schiacciato dalla guerra tra Usa e Cina. Molto più fumose sono invece le possibili strade da imboccare per raggiungerlo. Lo stesso “piano Draghi”, per quanto inquadri alcuni nodi focali, ad un anno dalla sua stesura è stato ben poco recepito nella pratica. “Sono solo parole” direbbero i critici, e allo stato attuale è difficile dargli torto.

    Cionondimeno, il fatto che l’establishment stia iniziando, seppur barcamenandosi tra incertezze e divisioni, a ragionare e a tentare di persuadere l’opinione pubblica della necessità di una riorganizzazione strutturale dell’Unione, pena la sua scomparsa, è comunque un segnale non da poco.

    Sicilia indipendente nell’Europa del domani

    Veniamo finalmente alla questione che ci riguarda più da vicino. Nello scenario attuale, qualunque Nazione senza Stato aspiri a una indipendenza politica da una delle entità statali di cui fa formalmente parte in Europa, ha ben poche possibilità di vittoria. Il fragoroso silenzio delle istituzioni europee sul referendum in Catalogna, che ha limitato l’intera faccenda a un questione di politica interna dello Stato spagnolo, ne è la dimostrazione.

    Previsioni simili si possono fare in riferimento alla richiesta di indipendenza proveniente dalla Sicilia. I danni causati da oltre un secolo e mezzo di colonialismo italiano e da ottant’anni di occupazione militare yankee sono sotto gli occhi di tutti.
    Ritenere che lo Stato italiano possa cambiare la propria conformazione strutturale per concedere ai siciliani tutti quei diritti che per troppo tempo gli sono stati negati è pura fantasia; così come sperare che gli Usa concedano alla loro principale piattaforma militare del Mediterraneo la possibilità di autodeterminarsi.

    E qui veniamo all’Europa. Una battaglia per l’indipendenza della Sicilia e del suo popolo, in qualunque forma si declini, necessita del riconoscimento di un attore forte che abbia l’autorevolezza e la facoltà di legittimarlo sul piano politico e legislativo. Un’Unione Europea come soggetto politico e non socio di minoranza degli Usa avrebbe il potere di intervenire direttamente sulla questione.

    Per la tenuta dell’Ue, l’assetto politico e territoriale dei singoli Stati – o quantomeno di alcuni di essi – conta relativamente poco, mentre una Sicilia indipendente dentro una sfera d’influenza europea, qualora questa riuscisse mai a costruirne una, costituirebbe un’essenziale piattaforma di lancio nel Mediterraneo allargato.

    Un’Unione Europea finalmente politica e non più meramente economica avrebbe la facoltà di accogliere le istanze delle numerose Nazioni senza Stato del Continente, dando finalmente senso al concetto di “Europa dei popoli”, espressione affascinante ma attualmente relegata al campo della retorica.

    Sicilia nazione europea dunque. Questa è la sfida, ma la conditio sine qua non è la costituzione dell’Unione come soggetto politico autonomo, in grado di perseguire i propri interessi nel cataclisma globale che si profila all’orizzonte. Certezze non ve ne sono, i dubbi restano tanti, ma la necessità di non essere scaraventati fuori dalla Storia può tradursi in prassi politica.

    Note:
    ¹Crs analisys of unclassified U.S. government documentation, luglio 2024.
    ²Sciortino Raffaele, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze, Asterios, Trieste, ottobre 2022.
    ³Negri Alberto, Nord Stream, l’America alla guerra dei gasdotti in «Il Manifesto», 17 agosto 2024.
    ⁴Ventrone Angelo, La Strategia della paura. Eversione e stragismo nell’Italia del Novecento, Mondadori, Milano, dicembre 2019.
    ⁵Redazione Ansa, Bayrou, ‘l’intesa un giorno buio, l’Europa si sottomette’ in «Ansa.it», 29 luglio 2025.
    ⁶Lombardi Luca, L’inesorabile declino dell’Europa nel rapporto Draghi in «Machina Rivista», 3 dicembre 2024.
    ⁷Migliorisi Angelica, Ue al lavoro per superare l’obbligo dell’unanimità in politica estera in «Il Sole 24 Ore», 27 agosto 2025.

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