Alla fine del mese di ottobre avrà inizio il ciclo di seminari “Lingue minorizzate e Nazioni senza Stato in Europa”, presso l’edificio 12 dell’Università degli Studi di Palermo. L’evento è organizzato dal Laboratorio Studentesco Autonomo, collettivo di studenti da anni in prima fila nella promozione di iniziative culturali e sociali e, soprattutto, nella trasmissione di un nuovo modo di vivere e attraversare gli spazi dell’Ateneo.
Il ciclo di seminari proposto approfondirà alcuni casi studio all’interno del contesto europeo da una prospettiva storica e linguistica, a partire dal concetto di “lingua minorizzata”, espressione che fa riferimento a idiomi che, pur essendo maggioritari all’interno della propria comunità di riferimento – i cui membri si identificano come un’unità culturale, storica e nazionale – non godono di legittimità politica e istituzionale. Il motivo è presto detto: la popolazione parlante una lingua minorizzata è subordinata a un soggetto politico altro, che in molti casi impone processi di svalutazione e stigmatizzazione sociale che ne compromettono la valorizzazione, mettendo in discussione addirittura lo status di “lingua” di quell’idioma.
Questo concetto si pone in contrapposizione con quello di lingua minoritaria, sebbene la distinzione venga spesso sfumata e ambiguamente sovrapposta. Un codice minoritario, infatti, è utilizzato da una ristretta fascia di parlanti all’interno di uno spazio in cui altri idiomi sono maggioritari, come l’arbëreshë in Sicilia.
In questo senso, una lingua può trovarsi in una condizione di subalternità, percepita come “inferiore” rispetto alla lingua nazionale, anche quando viene riconosciuta informalmente come lingua regionale o relegata sotto l’appellativo di dialetto. Partendo da questo presupposto, bisogna ricordare che le lingue minorizzate possono contare milioni di parlanti: il siciliano, con circa 5 milioni di parlanti nel mondo, è frequentemente considerato “inferiore” all’italiano, sia nella vita quotidiana sia in ambito ufficiale; allo stesso modo, il catalano viene parlato da oltre 10 milioni di persone in Spagna, Francia e Andorra, gode di uno status ufficiale in Catalogna, ma continua a essere posto sotto pressione dalla predominanza dello spagnolo.
Il principale fattore all’origine di questa ambiguità risiede, in larga parte, nei processi di repressione linguistica che hanno colpito le lingue sopra menzionate. Repressione che si è spesso manifestata attraverso l’esclusione sistematica dell’insegnamento delle lingue locali all’interno dei luoghi di formazione. Nel caso basco e catalano, le due lingue furono duramente colpite durante la dittatura franchista: il loro uso venne vietato nelle scuole, nel campo dell’informazione e nelle amministrazioni pubbliche. Analogamente, in Scozia il gaelico fu progressivamente marginalizzato, escluso dall’istruzione e dagli spazi istituzionali, lasciando spazio al predominio dell’inglese. La stessa dinamica si verificò in Corsica, dove il corso è stato relegato ai margini, a favore della lingua francese. In tutti questi casi, la repressione non si limitò all’impedimento dell’uso pubblico delle lingue, ma si tradusse anche nella loro esclusione dall’educazione formale e nella descrizione di questi codici come “inferiori” con l’obiettivo di cancellarne – o quantomeno ridurne – l’influenza culturale e il sentimento identitario che ne consegue.
Nel corso degli incontri saranno trattate diverse lingue – sardo, corso, catalano, irlandese, basco e siciliano – tutti significativi esempi di patrimoni linguistici e culturali di grande pregio, ma spesso marginalizzati, se non addirittura discriminati, nei contesti istituzionali e accademici. L’importanza di ridare prestigio e centralità a questi idiomi nella vita collettiva passa, come si discuterà nel ciclo di seminari, anche dalla necessità educativa di favorire il plurilinguismo come risorsa sociale e cognitiva. Infatti, nonostante la lunga stagione di marginalizzazione e repressione che ha colpito molte lingue minorizzate – e che di certo non può considerarsi conclusa – negli ultimi decenni si è assistito a un graduale cambiamento.
Gli studi nel campo della linguistica acquisizionale hanno dimostrato come la conoscenza e l’uso di più lingue costituiscano un arricchimento cognitivo, piuttosto che un ostacolo. Il mutamento di prospettiva a livello internazionale nel mondo accademico ha portato, seppur in tempi e con modalità diverse, a una graduale rivalutazione di alcune lingue minoritarie e minorizzate. Questa svolta si riflette concretamente nell’inserimento progressivo di idiomi per lungo tempo messi da parte all’interno dei programmi educativi, come risultato di lotte culturali, politiche e sociali da parte delle comunità interessate.
In Catalogna e nei Paesi Baschi, ad esempio, le rispettive lingue sono ormai riconosciute come ufficiali e parte integrante del sistema scolastico, garantendo alle nuove generazioni la possibilità di impararle e usarle in modo istituzionalizzato. In Corsica, il corso ha fatto il suo ingresso non solo nelle scuole ma anche all’Università.
Questi progressi rappresentano non solo un riconoscimento formale, ma un’autentica rivincita culturale per lingue che hanno subito decenni o secoli di emarginazione. Rappresentano, inoltre, un modello virtuoso basato su politiche linguistiche attente e che mirano a preservare e valorizzare i patrimoni presenti all’interno dell’Europa contemporanea. Le situazioni analizzate delle lingue minorizzate, dimostrano come la lingua non sia solo un mezzo di comunicazione, ma anche uno strumento di potere, di identità e di appartenenza.