• «Nun si Parti!»: Oggi come ieri, lottiamo contro l’emigrazione forzata dalla Sicilia

    «Nun si Parti!»: Oggi come ieri, lottiamo contro l’emigrazione forzata dalla Sicilia

    Quando il Natale è alle porte, ormai da decenni a questa parte, per i siciliani le festività sono sinonimo indissolubile del ritorno di centinaia di migliaia di emigrati, che “scendono” a riabbracciare i propri cari per una manciata di giorni. E sebbene durante questi giorni di festa la gioia nel ritrovarsi sia grande, non si può non provare rammarico e rabbia al solo pensiero che migliaia di giovani, se non intere famiglie, se ne vadano dalla Sicilia non per scelta volontaria, ma perché restare e costruire un futuro qui è ormai appannaggio di pochi fortunati.

    Ad oggi più di 800 mila siciliani vivono fuori dalla Sicilia, spinti alla fuga dalle migliori opportunità lavorative e prospettive di vita offerte dal Nord Italia e dai grandi paesi europei. Guardando ai rapporti ISTAT, tra il 2002 e il 2020, il saldo migratorio con le altre regioni d’Italia testimonia che in un ventennio si sono spostati nel Centro-Nord più di 222mila siciliani, come se tutta la città di Messina avesse fatto un biglietto di treno o aereo di sola andata verso il Nord. Per comprendere le ragioni di questa emigrazione di massa, che rappresenta una costante nella storia siciliana dagli anni Novanta del 1800, bisogna comprendere le condizioni materiali che la alimentano. La nostra isola soffre di enormi carenze in tutti i settori fondamentali per la vita di ogni siciliano. Sono problemi secolari, che affondano le loro radici in anni e anni di mancata programmazione, assenza di prospettive di sviluppo economico, definanziamento del settore pubblico e una ormai ciclica tendenza all’inerzia.

    Per non andare troppo lontano nel tempo basti pensare che, dal 2010 al 2019, lo Stato italiano ha tagliato fondi alla sanità pubblica per ben 37 miliardi di euro, di cui 8 miliardi sono stati sottratti alla sola Sicilia, distruggendo così il sistema sanitario regionale. Ed è per questo che i siciliani, quando devono accedere alla sanità pubblica, si ritrovano a dover sottostare a mancanza di posti letto, carenza di personale, code infinite al pronto soccorso. Spesso pagare per andarsi a curare fuori diventa l’unica soluzione per ricevere cure dignitose. E gli esempi non mancano. In una terra a forte rischio desertificazione, il 47% dell’acqua che scorre nelle nostre tubature viene dispersa. Sebbene dovrebbe essere un bene fondamentale, noi siamo costretti a centellinare l’acqua per paura di restare a secco, e ci siamo abituati a credere normale non avere acqua corrente per settimane.

    Per non parlare delle strade: mentre la politica istituzionale pensa di abbindolarci con specchietti per le allodole come il Ponte sullo Stretto, la viabilità interna all’isola è un disastro. Le poche autostrade che collegano le principali città sono costellate da cantieri e deviazioni; la rete ferroviaria è pressoché inesistente; viadotti, ponti e gallerie sono pericolanti e necessiterebbero di interventi urgenti.

    Anche le strutture scolastiche versano in condizioni pietose. Gli studenti studiano in scuole fatiscenti, ammassati in classi pollaio da trenta e più persone, perché mancano sia gli insegnanti che le strutture per formare nuove classi. Non abbiamo asili nido, né tempo pieno. Tutte cose garantite in altre regioni d’Italia, che a noi sono sconosciute.

    Molti giovani siciliani sono spinti ad andare a studiare fuori dall’isola alla ricerca di università meglio organizzate, che dispongano di centri di ricerca più avanzati e strutture in grado di accogliere molti più studenti, mentre negli atenei siciliani non è insolito vedere ragazzi fare lezione seduti sui gradini delle aule, perché non c’è posto per tutti. Forse sarebbe il caso di chiedersi perché alcuni atenei abbiano il capitale necessario per offrire servizi di qualità, che li possano rendere attrattivi anche per studenti che risiedono a centinaia di chilometri, mentre le università siciliane hanno subito tagli mostruosi agli investimenti pubblici, che gli fanno perdere iscritti di anno in anno. E dopo gli studi le prospettive sull’isola non diventano affatto più rosee. Parliamo di una regione che, per tassi di disoccupazione – totale, femminile e giovanile – compete per il primo posto in Europa con i dipartimenti d’oltremare francesi in Africa e in America Latina.

    Le opportunità lavorative offerte in Sicilia, a meno che un ragazzo non abbia voglia di rinchiudersi in una caserma, si basano su sfruttamento e salari da fame. I settori agricoli, della ristorazione e del turismo, richiedono ritmi di lavoro massacranti per poche centinaia di euro mensili, spesso in nero, costringendo i ragazzi a una condizione di precarietà a tempo indeterminato. Tutto questo accade all’interno di un paese “unico e indivisibile”, le cui carte fondamentali promettono di garantire uguali diritti e possibilità ai cittadini e alle regioni in cui vivono. Ma i governi centrali non si sono mai interessati a introdurre dei piani strutturali che permettessero un reale sviluppo della Sicilia, perché l’isola è stata concepita come una terra da cui poter reperire risorse e materie prime a basso costo da trasferire nel produttivo Nord. Gli unici poli produttivi che abbiamo mai visto sono quelli dell’industria pesante nel siracusano, a Gela e nella Valle del Mela. Tutte zone sottoposte a un rischio ambientale elevatissimo, dove la gente ha scelto di morire di tumore invece che di fame. E con la riconversione ecologica si sta aprendo un nuovo scenario, che sta vedendo la Sicilia trasformarsi in un grande campo di fotovoltaico ed eolico: di nuovo, una manciata di posti di lavoro in cambio di uno sfruttamento del terreno intensivo, che sacrificherà centinaia di campi agricoli sull’altare della produzione di energia da esportare altrove. Certo, questa volta in chiave “green”, magari senza tumori. E dovremmo anche ringraziare? Lo stato in cui versa la Sicilia ha permesso di costruire l’immaginario della “terra dannata”. La retorica è la stessa da sempre: in Sicilia nulla funziona perché nessuno ha voglia di rimboccarsi le maniche, perché la gente, nel migliore dei casi, è fannullona, svogliata e interessata soltanto al proprio tornaconto; nel peggiore dei casi l’isola è abitata soltanto da delinquenti, individuati come la causa di tutti mali.

    Se non c’è lavoro, se la sanità è in rovina, se le strade sono impercorribili e non abbiamo una rete ferroviaria degna di questo nome e se un giorno sì e l’altro pure un tetto di una scuola crolla, le responsabilità sono dei fannulloni e dei delinquenti siciliani. Nella nostra isola l’idea della fuga viene inculcata dandola per scontata fin dalla scuola: i professori non ci chiedono cosa vorremmo fare una volta finite le superiori, ma dove vorremmo andare. Allora è inevitabile che i siciliani se ne vadano, perché ci hanno insegnato che questa è l’unica strada percorribile per migliorare le nostre vite, salvo poi scoprire che al Nord non si vive affatto meglio, che un futuro migliore non è una certezza, che neanche da altre parti tutto funziona a meraviglia come ci hanno raccontato. La cosa più importante che si impara andandosene dalla Sicilia è che si scappa contro la propria volontà, che si è sottoposti a un terribile ricatto che ci obbliga a lasciare il posto in cui siamo cresciuti, la nostra famiglia e la nostra isola ricca di storia e di meraviglie che pochi altri posti nel mondo possono vantare.

    Allora è il caso di iniziare a restare, di lottare contro gli interessi politici ed economici che della nostra Sicilia vorrebbero farne un deserto. Rifiutarsi di sottoporsi al ricatto che ci costringe alla fuga è il primo passo verso il nostro riscatto, verso la costruzione di una Sicilia migliore. Dal novembre del 1944 al gennaio 1945 in diverse zone della Sicilia si ebbero manifestazioni e sommosse per evitare la deportazione dei giovani nell’esercito regio. «Perché i nostri giovani devono ripartire se la Sicilia è occupata e la guerra è finita?» – si chiedevano i siciliani. «Nun si parti, nun si parti!!!» fu la parola d’ordine che spontaneamente si diffuse tra tutti i giovani siciliani che ricevettero la cartolina rosa con l’invito a presentarsi.
    La deportazione dei siciliani appartiene alla storia di questa Italia. E allora vogliamo che il grido “Nun si parti” torni oggi a risuonare tra tutti quei giovani siciliani che rifiutano di emigrare. Che sia la parola d’ordine di un movimento che parli di radici, di riappropriazione della propria terra e del proprio futuro, di lotta per ristabilire la libertà di restare. Unisciti alla campagna!

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