Lo scorso mese ha sollevato un polverone mediatico la notizia della partecipazione del presidente ucraino Zelensky al festival di Sanremo, poi ridimensionata all’invio di un discorso letto in diretta televisiva.
Questa scelta, oltre che dar luogo a infiniti dibattiti buoni per riempire articoli di giornale e ore e ore di programmi televisivi, conferma la necessità della classe politica, a un anno dall’inizio del conflitto in Ucraina, di continuare a mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica sulla guerra, spettacolarizzando il pieno sostegno mediatico dell’Italia alla causa. Perché tutte le guerre, prima ancora di essere combattute con la forza delle armi e delle sanzioni, si giocano sul vitale terreno di scontro della propaganda. È necessario trasformare l’antagonista in un mostro mosso da sete di sangue e di potere piuttosto che da ben precisi interessi geopolitici ed economici, così che ogni azione contro di lui sia legittimata sul piano morale, non sulla base di contrapposti obiettivi politici; le vittime della guerra, che si tratti di morti sul campo o di gente costretta a scappare dalla propria terra, distrutta a causa della brutalità del conflitto, non sono rappresentate come persone oppresse, la cui esistenza è stata sacrificata sull’altare del profitto e degli interessi della classe dominante, bensì vengono raccontate come martiri, cadute volontariamente in nome di una causa più grande e che, pertanto, devono essere vendicate.
La narrazione della guerra in Ucraina non si sottrae affatto a queste dinamiche: gli irrinunciabili interessi di tutte le parti coinvolte hanno reso necessaria la messa in campo di una propaganda serrata. Nell’ultimo anno i telegiornali, i salotti televisivi, i giornali e i social sono stati bombardati da notizie di ogni genere sul conflitto che, per mesi, ha rappresentato l’unico tema meritevole di discussione.
L’opinione pubblica, tanto quella russa quanto quella occidentale, è stata chiamata a rispondere a una mobilitazione generale, che non ammette mezze misure o zone grigie: o ci si schiera in favore della narrazione dominante nel paese in cui si risiede, o si è traditori schierati dalla parte del nemico. Il conflitto mediatico è necessario per tutte le parti in campo, per inculcare a forza nel senso comune l’idea che vincere questo scontro sia fondamentale, che sia impensabile arretrare di fronte alle barbarie commesse dal nemico, che sia una guerra di civiltà tra i valori delle democrazie occidentali e l’autoritarismo russo da un lato, e una strenua difesa della sopravvivenza della Russia dall’invasione occidentale dall’altro.
La dogmatica polarizzazione della vicenda serve per raccontare alla popolazione che questo conflitto non può essere perduto, anche se ciò dovesse comportare sacrifici immensi; tagliare fondi pubblici da istruzione e sanità per raddoppiare le spese militari diventa un sacrificio doloroso sì, ma necessario. In un clima di generale «chiamata alle armi», nel quale la minaccia di una possibile escalation globale appare sempre più incombente, risulta molto semplice giustificare l’imperante diffusione della cultura di guerra come una necessità storica. Ecco che l’attivazione di percorsi di alternanza scuola-lavoro per 350 studenti di sette scuole siciliane, che si svolgeranno nella base USA di Sigonella – centro fondamentale per gli interessi nel Mediterraneo dell’esercito statunitense, da cui partono i droni che sorvolano i cieli ucraini – riesce a passare quasi sotto silenzio, senza che la politica e la stampa sentano il bisogno di dover esprimere una parola di critica in merito.
La narrazione della guerra sostenuta dalla classe politica e dai media non ha alcunché di politico: è un racconto impregnato di moralismo ed etica spicciola; un po’ come le fiabe per bambini, nelle quali il mondo si divide in buoni e cattivi, e non è ammessa alcuna sfumatura. La costruzione ad arte di un nemico oscuro, astratto e malvagio per natura giustifica l’uso permanente di misure straordinarie per contrastarlo: nel caso dell’Italia, alla fine dello stato di emergenza sanitaria dovuto alla diffusione del Covid-19 seguì immediatamente l’attuazione di quello per la guerra, valido fino alla fine del 2022 e recentemente prolungato fino a marzo del 2023.
Per di più, poiché il nemico è invisibile e lontano, e gli possono attribuire tutte le colpe del mondo, si possono giustificare responsabilità e scelte politiche impopolari scaricandole verso l’esterno. Se milioni di persone finiscono sotto la soglia di povertà assoluta mentre i pochi ricchi diventano ancora più ricchi la colpa non è di certo degli Stati capitalisti che favoriscono l’aumento delle disuguaglianze, ma della guerra che ha messo in crisi l’economia. Allo stesso modo, se il prezzo del gas schizza alle stelle già mesi prima dell’inizio della guerra, la responsabilità non è delle multinazionali del settore che speculano selvaggiamente, ma della Russia che chiude i rubinetti.
I paradossi più grandi che l’assordante propaganda occidentale ha introdotto per giustificare sul piano morale delle scelte che di morale non hanno niente, si fondano sulle parole «difendere» e «in difesa della democrazia e dell’autodeterminazione del popolo ucraino dall’autoritarismo russo». Appare quantomeno curioso che gli Stati occidentali, quasi cadendo dalle nuvole, si siano resi conto soltanto lo scorso 2 febbraio che la Russia – una nazione che conoscevano bene e alla quale erano ben felici di vendere armi fino al giorno prima – non rappresentasse esattamente il loro modello di democrazia. Parallelamente, sembra inspiegabile come, nel mentre l’autodeterminazione per il popolo ucraino, in particolare nelle repubbliche separatiste del Donbass e i cui nomi non è concesso il diritto di autodeterminarsi ai rifugiati politici curdi, che sono stati per mesi tranquillamente indicati come merce di scambio che la Svezia e la Finlandia proponevano di cedere alla Turchia di Erdogan (noto paladino della democrazia), in cambio della rimozione del veto al loro ingresso nella Nato.
Sembra inspiegabile, ma non lo è affatto. Perché, al di là della retorica, nessuna delle parti coinvolte in questo conflitto si muove in nome di imperativi di carattere etico, ma per perseguire i propri scopi geopolitici ed economici, o per assecondare gli interessi di potenze alle quali non si può dire di no.