Si pensi ad una festa di paese. L’atmosfera gioviale, il corso principale ricolmo di gente, gli artisti di strada all’opera. Si pensi ai bambini, intenti a rincorrersi l’un l’altro per le viuzze urtando, di tanto in tanto, contro i fianchi degli adulti. Si pensi al vocìo disordinato dei venditori di semenza e a quello dei venditori di pannocchie. Alla vecchia che cammina piano, assaporando a piccoli passi ogni metro da percorrere; al giovane che procede in fretta in cerca di avventure. Si pensi poi al profumo e al fumo delle caldarroste che si addensa in banchi di nebbia spessa, periodicamente presi in carico e spediti in giro da folate di vento tiepido: un’antica forma di pubblicità in grado di suscitare appetito anche alle più grandi distanze.
Al centro della piazza, circondato da una folla di ogni età e con accanto una sedia in plastica logora, un uomo regge un libriccino in mano.
Ed ecco all’improvviso liberarsi un canto nell’aria:
Ascutami,
parru a tia stasira
e mi pari di parrari o munnu.
Ti vogghiu diri
di non lassàrimi sulu
nta sta strata longa
chi non finisci mai
ed havi i jorna curti.
Ti vogghiu diri
chi quattr’occhi vidinu megghiu,
chi miliuna d’occhi
vidinu chiù luntanu,
e chi lu pisu spartutu nte spaddi
è diventa leggìu.
Ti vogghiu diri
ca si t’appoji a mia
e io m appoju a tia
non putemu cadiri
mancu si lu furturati
nn’assicutanu a vintati.
L’aceddi volanu a sbardu,
cantanu a sbardu,
nu cantu sulu è lamentu
e mori’ntall’aria.
Non calari l’occhì,
ti vogghiu amicu a tavula;
e non è vero mai’
ca si deversu di mia
c’allongu i vrazza
e ti chiamu: frati..
(I.Buttutta, Nun mi lassari sulu)
«Ognuno vale esattamente quanto le cose a cui dà importanza», soleva dire Marco Aurelio, imperatore e filosofo dell’antico Impero Romano. Massima condivisibile anche oggi dopotutto, e che ci aiuta a tirar le somme su chi sia stato Ignazio Buttitta. Potremmo definirlo in prima battuta come colui che si è impegnato a tal punto nei confronti della sua comunità da trasformare un qualcosa di potenzialmente molto intimo, quale può essere l’attività poetica, in un momento di condivisione totale. Un po’ come un novello San Francesco, Ignazio Buttitta si è spogliato dello status di eletto, tipico di chi di professione fa il poeta, per vestire i panni del semplice “Zu Gnazio”: educatore, amico e sicuro riferimento per tutte le vicende del popolo. La cura che Buttitta ha del prossimo emerge chiaramente da qualunque suo verso ed ispira un’ammirazione genuina.
Ma chi è il prossimo per noi oggi? Un possibile alleato da aiutare, o forse uno sconosciuto da cui difendersi?
Buttitta non ebbe dubbi. Una scelta poetica, quella dell’autore siciliano, sicuramente non convenzionale, fortemente ancorata alla realtà, che potremmo definire “non sterilmente letteraria”, che da voce a un intero popolo. Una vuci putenti orientata verso le concrete e profonde sofferenze della gente, la cui esistenza tormentata ispirava con ardore la penna del poeta. Il grido d’un popolo in lotta contro l’ingiustizia di una miseria dilagante, raccontato da Buttitta con le stesse parole e gli stessi suoni pronunciati ogni giorno da chi delle sue opere divenne protagonista.
Un populu
diventa poviru e servu
quannu ci arrubbano a lingua
addutata di patri:
è persu pi sempri.
(I. Buttitta, Parru cu tia)
Con queste parole Buttitta afferma la centralità dell’uso della propria lingua nella salvaguardia dell’identità di un popolo. La lingua siciliana è per Buttitta, oltre che un elemento distintivo della sua produzione poetica, il principale strumento di una poesia densa di verismo sociale, pregna di tradizioni, votata a raccontare la fatica dei più poveri e la lotta per il pane quotidiano. Eppure, parole simili che sembrano un’eco proveniente da un mondo lontano, risuonano oggi con la stessa potenza di quando furono impresse sulla carta. A quasi trent’anni dalla sua scomparsa, il poeta continua a narrare le vicende di un popolo ferito ma mai arrendevole. Dalle parole dei suoi versi, affiora l’immagine di una Sicilia più attuale che mai. Dell’esodo descritto in Lu trenu di lu suli ritorna con forza l’amarezza che riempiva i vagoni gremiti di famiglie in viaggio verso nuove mete, come i nostri giovani oggi, in fuga, alla ricerca di quel futuro strappato con violenza dalla loro terra.