• Il gigante malato: la Germania tra crisi di governo e debolezze strutturali

    Il gigante malato: la Germania tra crisi di governo e debolezze strutturali

    Strano a dirsi, vista la grande solidità che ha contraddistinto lo Stato tedesco negli ultimi decenni, ma la Germania è in crisi di governo. Il 16 dicembre scorso il Bundestag ha sfiduciato il cancelliere uscente Olaf Scholz, aprendo la strada a nuove elezioni previste per il 23 febbraio. Tornata elettorale vissuta con forte preoccupazione da molti (o esaltazione, a seconda dei casi) per via della possibilità concreta che Alternative für Deutschland, partito in straordinaria ascesa negli ultimi anni, possa vincere le elezioni, riportando al potere in Germania un partito di destra radicale dopo ottant’anni. Posto ciò, lo Stato si trova in una fase di crisi strutturale come non accadeva dal secondo dopoguerra, le cui cause precedono di gran lunga la comparsa di AfD sulla scena politica, e di cui l’attuale caduta del governo ne è soltanto l’ultima dimostrazione. Tra recessione, crollo di produzione industriale ed esportazioni, calo demografico e interruzione dei rapporti energetici con la Russia, il tonfo del gigante malato rischia di trascinare nel baratro l’intero continente.

    Crisi di governo: il riflesso dell’incertezza tedesca

    Le ragioni dell’attuale stallo politico ed economico sono molteplici e affondano le radici nelle scelte strategiche che hanno plasmato la visione di lungo periodo della Germania negli ultimi decenni.
    L’attuale crisi politica tedesca, per quanto costituisca un caso particolare, può risultare comunque esemplificativa per cogliere l’incapacità dell’attuale classe dirigente di elaborare una strategia comune per affrontare le sfide del presente in un quadro geopolitico sempre più incandescente.
    La “coalizione semaforo”, formata dai socialdemocratici dell’SPD, dai Verdi e dai liberali dell’FDP, giunge al capolinea di fronte al forte disaccordo riguardo lo sforamento del tetto al debito, che violerebbe la rigida legge costituzionale Schuldenbremse, il freno all’indebitamento introdotto nel 2009 sotto la cancelleria di Angela Merkel. Questi proibisce agli stati federali di registrare deficit, limitando il disavanzo strutturale del governo a un massimo dello 0,35% del PIL. Sebbene sia nata con l’intento di garantire stabilità finanziaria, nei fatti parte dell’establishment teutonica ritiene che la Schuldenbremse sia stata la principale responsabile della prolungata stagnazione economica e che oggi sia una misura controproducente ed impraticabile. A fronte di ciò, Berlino ha aggirato il problema con la creazione di fondi extra-bilancio esclusi dal limite dello 0,35%, escamotage che ha permesso di fronteggiare la pandemia di Covid-19. Più recentemente ha consentito all’oramai ex cancelliere Olaf Scholz di investire 100 miliardi di euro per riarmare la Germania a seguito dell’invasione russa in Ucraina. Posto ciò, per l’ex ministro delle finanze Christian Lindner, il momento di crisi economica ed energetica che sta vivendo la Germania non giustificherebbero un’eccezione ed un indebitamento superiore al limite previsto. Questa è la ragione che ha determinato la rottura definitiva con Scholz e la caduta del governo.
    Debito sì o debito no? Questo è il dilemma.
    Investire massicciamente nel tentativo di salvare l’industria travolta dalla crisi e minacciata un giorno sì e l’altro pure dai dazi paventati da Trump, rischiando però di creare instabilità finanziaria o, ancor peggio, di rendere il debito sovrano ostaggio di possibili attacchi speculativi da parte degli USA? Insomma, la Germania deve capire cosa vuol fare da grande, ed è chiamata a delineare una nuova strategia economica da percorrere lungo un campo minato.

    Da motore economico d’Europa a gigante in crisi: declino industriale e sfide globali

    L’enorme crescita industriale della Cina, in grado di superare la potenza tedesca in tutti i settori, e il pacifismo e l’atlantismo che hanno condotto il Paese a fare pieno affidamento alla Nato – consegnando l’autonomia strategica di Berlino nelle mani degli Stati Uniti – hanno ridotto la capacità del Paese di competere su scala globale. A ciò si aggiunge il già citato dogma dell’austerità di bilancio, rivelatosi essere un freno paralizzante. La sfida che oggi si trova a vivere Berlino, infatti, non sta solo nel trovare una nuova guida politica ed economica, ma di ridefinire il proprio ruolo all’interno di un assetto geopolitico in rapida trasformazione, in cui la competizione tra le principali potenze del pianeta si fa sempre più aspra.
    Negli ultimi anni, in particolare, tra la pandemia di Covid-19 che ha duramente colpito l’industria, e l’aprirsi della crisi energetica per via della guerra in Ucraina, per la locomotiva d’Europa le cose sembrano andare di male in peggio.
    L’interruzione delle forniture di combustibili fossili dalla Russia ha provocato un aumento drammatico dei prezzi dell’energia in tutta Europa e, in particolare, in Germania. Tale vulnerabilità non è altro che il risultato di una lunga tradizione radicata nella Ostpolitik, avviata dal quarto cancelliere della SPD Willy Brandt negli anni Settanta e proseguita negli anni a venire. Da tempo Berlino ha scelto di affidarsi all’economico e apparentemente affidabile gas russo per alimentare le proprie industrie. Nel 1998 si chiuse il cerchio con il lancio del gasdotto Nord-Stream 1, progettato per portare il gas russo in Germania aggirando Polonia e Ucraina attraverso il Mar Baltico. Questa politica è stata portata avanti senza soluzione di continuità dai cancellieri cristiano-democratici, Helmut Kohl e Angela Merkel. A ciò si aggiungono le profonde difficoltà dell’industria automobilistica, fiore all’occhiello dell’economia tedesca, che rappresenta circa l’8% del Pil e contribuisce al 15% del valore della produzione manifatturiera tedesca (il doppio rispetto alla media europea) occupando 569mila lavoratori 1. Ad oggi la situazione produttiva è allarmante; la manifattura tedesca ha subito una flessione espressasi con una diminuzione della produzione industriale pari al -1,9% negli ultimi tre mesi 2. Solo nel 2024, colossi come Volkswagen, Bmw e Mercedes hanno registrato una riduzione delle immatricolazioni in Europa tra il 9,7% e il 13,3% 3. Sempre Volkswagen, ad ottobre 2024 aveva annunciato la chiusura di tre stabilimenti, mentre la Ford si è accodata a novembre con un taglio di 4mila posti di lavoro. Una pesante depressione che ha origine in primis nella transizione elettrica e nelle difficoltà del mercato cinese ad assorbire l’export della Germania. Dal varo del Green Deal europeo, il cui obiettivo consiste nell’azzeramento delle emissioni di CO2 per i veicoli nuovi entro il 2035, ne sono conseguiti costi di riconversione spropositati, conducendo ad una riduzione della produzione di auto nell’Unione Europea del -10,6% tra il 2019 e il 2023, con una accentuazione pari al -12,0% in Germania 4. Nel tentativo di mitigare l’impatto, l’industria tedesca ha investito intensamente in Cina, sia nel settore automobilistico che in quello dei macchinari, cosa che le ha permesso di compensare la perdita di competitività in Europa. Tuttavia, una volta acquisito il know-how, l’ascesa dei costruttori cinesi ha portato a un crollo della quota di mercato dei produttori tedeschi. Tutto merito delle innovative ed economiche auto elettriche cinesi, per di più foraggiate da ingenti investimenti statali, che hanno iniziato a competere con i marchi della Germania su scala globale.

    Trump all’attacco della Germania: un equilibrio fragile

    In tutto ciò, la Germania è finita nel mirino del neoeletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump e delle sue politiche apertamente antieuropee e, in particolare, tedesche, anche per via dell’enorme surplus commerciale tedesco nei confronti dell’economia stelle e strisce. In tema di difesa, la prima presidenza Trump aveva già criticato duramente i contributi europei alla Nato, tentando con non poche pressioni di far uscire la Germania dal lungo torpore che aveva portato lo Stato a delegare l’intera difesa a Washington. A seguito della guerra in Ucraina, ha fatto scalpore la recente dichiarazione del presidente durante una conferenza stampa a due settimane dall’insediamento, per cui l’Alleanza «dovrebbe avere il 5% come limite minimo di spesa (militare)». Una proposta che il cancelliere Olaf Scholz, così come tanti altri leader europei, ha prontamente respinto, ma che evidenzia il crescente squilibrio tra le aspettative americane e la capacità europea di rispondere a tali richieste. La Germania è però uno degli alleati più stretti degli Stati Uniti in Europa, e dopo il giuramento del 20 gennaio si immaginano maggiori pressioni sia a livello economico che militare. Sotto l’aspetto commerciale, infine, con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, è probabile che aumenti la stretta affinché l’Europa si allinei alla dura posizione di Washington nei confronti di Pechino, facendo perdere ai tedeschi ulteriore terreno nel mercato cinese. L’industria tedesca rischia di essere una delle principali vittime della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, tra l’esigenza di preservare il rapporto con l’egemone globale e la necessità di difendere il proprio modello industriale.

    Possibile rischio contagio anche per Italia e Sicilia?

    Nel 2022, l’interscambio commerciale tra Italia e Germania ha raggiunto i 168,5 miliardi di euro, segnando un incremento del 18% rispetto all’anno precedente. Tuttavia, l’attuale debolezza del sistema produttivo tedesco pone seri interrogativi sulle prospettive future dell’economia italiana, di cui è storico partner economico. Nonostante nel 2024 Berlino si sia confermato il primo mercato di sbocco per le esportazioni italiane, con un valore di 72,2 miliardi di euro e pari all’11,5% delle vendite italiane nel mondo, nei primi sette mesi dell’anno l’export ha registrato una flessione del 5,4% a fronte di un lievissimo incremento dello 0,8% nei mercati globali. Ciò ha causato una perdita nelle vendite per le imprese italiane stimata in 12 milioni di euro al giorno. Secondo il ministro degli esteri Antonio Tajani, che ha parlato in apertura della Conferenza Nazionale dell’Export e dell’Internazionalizzazione delle Imprese a Milano «Se le cose vanno male lì (in Germania) poi non andranno bene in Italia, quindi dobbiamo anche prepararci a rischi di contagio». Nello specifico, la stretta interdipendenza tra le economie dei due Paesi si manifesta soprattutto lungo le catene produttive internazionali. Il 58% delle vendite in Germania è costituito da prodotti intermedi come componenti per macchinari, parti di veicoli e materie prime lavorate. La forte correlazione tra la dinamica dell’export italiano e quella della produzione tedesca è confermata sia nel quinquennio precedente alla crisi finanziaria del 2008, sia in quello antecedente alla pandemia, in cui il coefficiente di correlazione si attestava allo 0,8.

    Per quanto riguarda la nostra isola, le prospettive rischiano di essere tutt’altro che rosee. La Sicilia riceve enormi risorse dai fondi strutturali e di coesione varati dell’Unione Europea. Tenendo conto del fatto che la Germania è il principale contribuente netto al bilancio dell’Unione Europea e, pertanto, il principale investitore di risorse utili a finanziare i fondi sopraccitati, una recessione renderebbe maggiormente difficile mantenere alti i livelli di contribuzione. In altre parole, il capitale UE destinato alla nostra isola subirebbe una contrazione non di poco conto, causando scossoni alla già precaria economia siciliana.

    Il quadro delineato, tra crisi industriali, calo demografico, sfide energetiche e tensioni geopolitiche, mostra una crisi che mette in discussione il modello tedesco nella sua interezza. Un richiamo urgente alla necessità di ripensare modelli economici, strutture produttive e priorità politiche. Al di là del risultato delle prossime elezioni, la Germania necessità di una strategia complessiva per affrontare la crisi globale, pena la tenuta interna dello Stato e, forse, quella dell’intera Unione Europea.

    Note:

    1. Pierre-Nicolas Schwab, Industria automobilistica tedesca: analisi e prospettive per il 2024, 21 ottobre 2024. ↩︎
    2. Production index for the industry in «Destatis» ottobre – dicembre 2024. ↩︎
    3. New EU car registration in «Acea», gennaio 2025.
      Crisi dell’auto in Europa, cosa sta succedendo e cosa c’entra la Cina in «Skytg24», 3 dicembre 2024 ↩︎
    4. Crisi dell’auto in Europa, cosa sta succedendo e cosa c’entra la Cina in «Skytg24», 3 dicembre 2024.
      Immatricolazioni auto Europa: novembre in calo, 11 mesi in positivo in «Gazzetta.it», 19 dicembre 2024 ↩︎

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