Il mese di aprile si è aperto con la seconda edizione della “Simana dû Sicilianu”, inaugurata domenica 30 marzo con la mobilitazione “Parra comu manci” per richiedere il riconoscimento ufficiliale della lingua siciliana. Un evento che ha evidenziato il bisogno, condiviso da una grande fetta del popolo siciliano, di difendere e valorizzare una lingua che troppo spesso è oggetto di stereotipi e pregiudizi.
Infatti, nonostante il siciliano venga parlato ancora oggi da milioni di persone – tra chi risiede in Sicilia e gli emigrati che hanno lasciato l’isola stabilendosi all’estero – non vanta di un riconoscimento a livello istituzionale e, fin troppo spesso, la sua storia linguistica e letteraria viene negata o cancellata. La mancanza di tutele politiche, i preconcetti che ne minacciano l’uso, il declassamento a dialetto sono frutto di una stigmatizzazione storica che, soprattutto lungo lo scorso secolo, ha messo in cattiva luce chi utilizzava il siciliano. Il suo uso è stato associato all’espressione di una cultura inferiore e retrograda, quasi anacronistica e, per questo motivo, ha innescato un senso di vergogna e rifiuto in chi lo parlava, trasmesso anche alle ultime generazioni. Tutto ciò è avvenuto attraverso la svalutazione della produzione letteraria in lingua siciliana, a partire dalla sua rimozione dai programmi scolastici, nonostante il nostro idioma possa vantare una tradizione secolare e di grande prestigio.
Alla soppressione dal punto di vista letterario, si accompagna l’idea del siciliano come “dialetto” dell’italiano; una definizione errata, soprattutto da un punto di vista linguistico. Il siciliano, infatti, non è una variante dell’italiano (ovvero del toscano), ma una lingua autonoma e indipendente con una storia, una grammatica e una sintassi proprie, che proviene direttamente dal latino volgare al pari dell’italiano, facendo così parte della continuità linguistica italo-romanza. Ma la questione, più che linguistica, appare politica; declassare il siciliano a dialetto equivale a caricarlo di un significato negativo e identificarlo come linguaggio appartenente a una cultura bassa e minoritaria, contrariamente a quanto riconosciuto da enti a livello mondiale come l’UNESCO, Ethnologue, il Linguasphere Observatory o Glottolog, che definiscono il siciliano come lingua madre e tra le lingue europee vulnerabili.
Allo stesso tempo, altre lingue minoritarie presenti in Sicilia, come l’arbëreshë o il gallo-italico, vengono riconosciute e tutelate. Il motivo è presto detto: riconoscere il siciliano come lingua significherebbe legittimare il nostro patrimonio storico e identitario. In un’isola che ancora oggi conserva un forte senso di alterità nei confronti dello Stato italiano ciò avrebbe delle enormi ricadute politiche prima ancora che linguistiche.
Un altro stereotipo comune è quello che associa la lingua siciliana a mondi malavitosi. La tradizione siciliana, infatti, è stata spesso legata a racconti di mafia e criminalità, ma è ingiusto ridurre la lingua e la cultura siciliana a una rappresentazione così limitata. Il siciliano, come ogni lingua, investiva fino pochi decenni fa tutti gli ambienti della società, tra cui anche quello criminale dove i codici si sono mantenuti nel corso del tempo, ma circoscrivere il suo uso principalmente a questo tipo di contesti significa a tutti gli effetti effettuare una distorsione storica che non restituisce il prestigio e la dignità della lingua siciliana. Troppo spesso dimentichiamo che per molti parlanti delle comunità all’estero, il siciliano non è solo uno strumento di comunicazione, ma anche un simbolo di appartenenza e di orgoglio identitario: rappresenta per loro la prima lingua, affiancata a quella del paese d’arrivo, che porta con sé storie, tradizioni e valori che si tramandano da generazioni.
È fondamentale, dunque, comprendere che il siciliano non deve più essere percepito come motivo di vergogna, ma come una risorsa da preservare e valorizzare. Restituirgli il suo posto centrale nel panorama culturale significa anche restituire a chi lo parla un legame profondo con il proprio passato e con la propria identità.
Proprio da questa esigenza, negli anni sono nate realtà come Cademia Siciliana – in prima fila durante la manifestazione insieme a Trinacria – che si battono per il riconoscimento e la diffusione del siciliano, portando avanti iniziative concrete. Tra queste, l’applicazione della legge regionale 9/2011, che prevede l’insegnamento del patrimonio culturale e linguistico siciliano nelle scuole. Se attuata pienamente, attraverso lo stanziamento di risorse, questa legge consentirebbe di superare l’idea che parlare la propria lingua madre sia sinonimo di ignoranza e arretratezza, e permetterebbe ai giovani di apprendere e utilizzare il siciliano come una lingua viva, adatta anche alla contemporaneità.
In questo contesto, lo stanziamento di 500.000 euro per il progetto “Non solo Mizzica – Il siciliano, la lingua di un popolo” per la promozione della lingua e della cultura siciliana nelle scuole, rifinanziato dopo la manifestazione del 30 marzo, è un passo importante verso la tutela e la promozione di questa lingua, la cui dignità è stata negata per decenni. Così come lo è stato il convegno internazionale dal titolo “Lingue minoritarie in Europa: percorsi comuni per preservarle”, ospitato nella prestigiosa cornice del Palazzo Reale di Palermo, dove linguisti ed esperti provenienti da tutta Europa si sono confrontati sulle strategie per la tutela e la valorizzazione delle lingue considerate vulnerabili.
La battaglia per il riconoscimento del siciliano è una questione di identità, cultura e autodeterminazione. È il riscatto di un popolo che rifiuta l’imposizione dei dominatori e difende con orgoglio la propria storia e le proprie radici, alle quali è ora di rendere giustizia.