• Università italiane e FFO: all’origine delle disuguaglianze

    Università italiane e FFO: all’origine delle disuguaglianze

    Come tutti i lettori sapranno, e potranno ricordarsi facilmente guardandosi attorno mentre attraversano le strutture e gli spazi dell’Ateneo, l’Università degli Studi di Palermo – salvo alcune facoltà – versa in una condizione di decadimento progressivo e ininterrotto da ormai troppi anni. Le numerose problematiche dell’Università sono ben note: da strutture in gran parte vecchie e in alcuni casi fatiscenti, alla mancanza di spazi destinati allo studio con orari realmente accessibili a tutti, fino ad arrivare alle condizioni in cui versano attualmente gli studentati, giusto per fare un paio di esempi.

    Ma attribuire la responsabilità di tale situazione esclusivamente alle diverse “governance” amministrative succedutesi nei decenni porterebbe a una rappresentazione parziale di un problema che non è patologico del nostro Ateneo, bensì il frutto di scelte politiche ed economiche ben precise attuate dai vari governi italiani almeno a partire dal 2008, a essere generosi. Ciò ha fatto sì che l’Università di Palermo si trovasse in una doppia condizione di minorità: la prima, che la vede in svantaggio, insieme agli altri Atenei d’Italia, rispetto alle Università di gran parte dei paesi dell’Unione Europea; la seconda, che la vede in svantaggio nei confronti dei Centri Universitari del Nord del paese.

    Basti pensare che, al 2018, il finanziamento pubblico per le Università ammontava a 7,3 miliardi di euro, a fronte dei 31 e 25 miliardi spesi rispettivamente da Germania e Francia, con una diminuzione del 14% nel decennio 2008-20181. Il numero complessivo dei docenti è passato da 44.799 a 37.837 unità tra la fine del 2006 e la fine del 2017, con una variazione del rapporto fra studenti e docenti da 27/1 a 31,5/12; infine, la tassazione universitaria italiana (come attestano i dati standardizzati e comparati dell’Ocse) è la terza più alta dell’Europa continentale, con una media di circa 2000 dollari annui per studente2.

    Le informazioni riportate mostrano come, negli ultimi 10 anni, le Università italiane abbiano fatto enormi passi indietro sul piano tanto degli investimenti quanto su quello dei risultati rispetto alle controparti europee, a fronte di spese comunque salatissime per le famiglie.
    Fermarsi qui sarebbe però riduttivo, poiché l’aspetto più controverso della vicenda riguarda la gestione assolutamente diseguale riservata dai governi nei confronti dei diversi Atenei della penisola. Per avviarsi a una basilare comprensione delle cause di questo distacco, sempre crescente di anno in anno, è necessario chiarire le dinamiche di assegnazione e distribuzione del denaro alle università, legate al funzionamento dell’FFO.

    Il Fondo per il finanziamento ordinario costituisce la quota a carico del bilancio statale per il funzionamento e il mantenimento delle università, comprese le spese per il personale docente, la manutenzione delle strutture e la ricerca scientifica. In seguito alla riforma Gelmini, che ha previsto un ingente diminuzione del fondo, fu stabilita l’assegnazione di una quota premiale, da distribuire sulla base di una serie di parametri, per un totale del 30% del fondo. La variazione dello stanziamento dell’FFO e degli iscritti nei principali atenei italiani ci mostra come, nel corso dell’ultimo decennio, si siano generati un “circolo virtuoso” e un “circolo vizioso”.
    Gli atenei del Centro-Nord, aventi una condizione di partenza più vantaggiosa, hanno la forza economica di risultare di anno in anno sempre più attrattivi per migliaia di studenti, ottenendo così finanziamenti sempre maggiori e ponendosi in una condizione di crescita progressiva. Assistiamo a tutt’altre scene per le Università del Meridione e della Sicilia: il continuo calo di iscritti e la diminuzione di fondi si combinano in un doppio rapporto di causa-effetto che, nel lungo periodo, porterà a un fortissimo ridimensionamento e magari anche alla scomparsa di numerosi atenei. Prendiamo un esempio: il Politecnico di Torino dal 2008 al 2018 ha incrementato la propria quota di finanziamenti a carico dello Stato del 6,2% e incrementato il proprio numero di iscritti del 6,1%; l’Università di Messina, nello stesso periodo, ha subito tagli del 23,5% e un decremento delle iscrizioni del 29,4%3.

    Una delle terribili conseguenze di tutto ciò è riscontrabile nelle migliaia di giovani siciliani che, ogni anno, si trovano costretti ad abbandonare l’isola per andare a studiare in atenei meglio finanziati e gestiti. Tale dinamica ha anche un forte impatto nell’economia della regione, poiché le Università giocano un ruolo di primo piano nella crescita economica delle città dove sono allocate e, soprattutto, il 38% dei ragazzi che decidono di andare a studiare fuori dall’isola non fanno più ritorno4.

    Pertanto, buona o cattiva governance universitaria a parte, è necessario riflettere e agire sulle cause strutturali e sulle consapevoli scelte politiche che ogni giorno favoriscono l’esistenza e il rafforzamento di tale, inaccettabile, distanza nella qualità del diritto allo studio offerto nelle varie parti dello Stato italiano.

    Note:

    1. Elaborazione su dati EUA e Eurostat ↩︎
    2. Rilevazione del CUN; ↩︎
    3. Elaborazione dell’autore su dati MIUR-ANS; ↩︎
    4. N. Panichella, la mobilità territoriale dei laureati meridionali: vincoli, strategie e opportunità, “Polis”. ↩︎

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