L’ultimo capitolo del conflitto tra Iran e Israele per il riequilibrio dei rapporti di forza in Medio Oriente ha riacceso i riflettori dell’opinione pubblica circa la funzione strategica ricoperta dalla Sicilia all’interno dell’Alleanza Atlantica. Il diretto coinvolgimento degli Stati Uniti ha suscitato enorme preoccupazione nella nostra isola e non solo; e sono stati in molti a temere possibili rappresaglie da parte iraniana qualora le infrastrutture militari presenti nel nostro suolo fossero state impiegate per colpire la Repubblica Islamica.
La bolla mediatica esplosa con l’inizio della guerra dei 12 giorni, come sempre accade in questi casi, suscita grande rumore salvo spegnersi rapidamente in seguito al congelamento – solo temporaneo, s’intenda – del conflitto armato. Peccato che, al di là dello scontro tra Tel Aviv e Teheran, la Sicilia ricopra un ruolo di primo piano in quella che in tempi non sospetti Papa Francesco definì «la guerra mondiale a pezzi».
La presenza di infrastrutture militari come la Naval Air Station di Sigonella e il Muos di Niscemi – che finiscono nell’occhio del ciclone ogni qualvolta gli Usa paventino iniziative belliche nel Mediterraneo allargato – per quanto strategicamente rilevante e di certo non trascurabile, non è l’unico fattore che determina la centralità della nostra isola in un Mediterraneo torbido come non lo è più stato per decenni.
Alla luce di ciò, nelle righe che seguiranno si tenterà di inquadrare e contestualizzare il peso specifico ricoperto dalla nostra isola dal punto di vista militare, energetico e geostrategico all’interno della “guerra grande” e, più specificamente, nel Mediterraneo conteso.
Un quadro d’insieme
Non scandalizzerà nessuno affermare che siamo ormai ben oltre il crepuscolo della pax americana. L’egemonia globale statunitense, benché lungi dall’essere sul punto di un definitivo tracollo, è stata messa in discussione nei suoi elementi strutturali – dollarizzazione dell’economia, controllo degli istmi, supremazia militare e rapporto verticale con la Repubblica Popolare Cinese – da una serie di potenze desiderose di riscrivere l’ordine mondiale a propria immagine e somiglianza, o comunque in forme che non prevedano la totale sudditanza nei confronti di Washington.
Da qui il caos: il conflitto russo-ucraino, l’incancrenirsi della drammatica questione palestinese, focolai di guerra e colpi di Stato in lungo e in largo per il continente africano, l’adesione ai Brics da parte di nazioni di tutto il mondo. Tutti eventi che, sebbene determinati da cause storiche e materiali particolari, costituiscono i pezzi di un puzzle in costante mutamento. Momenti particolari di un più ampio processo di ridefinizione dei rapporti di forza e delle gerarchie su scala globale.
Il Mare Nostrum è tra i principali campi di battaglia di quest’epoca buia, forse secondo soltanto al Mar Cinese Meridionale. I conflitti per procura per il controllo dei colli di bottiglia e dei porti tra Nord Africa e Medio Oriente e gli sconfinamenti delle navi russe nel Mediterraneo orientale ne sono esempi significativi, così come le minacce iraniane di chiudere lo stretto di Hormuz, con terribili conseguenze per le economie occidentali. Gli Stati rivieraschi si contendono ferocemente la sovranità di pozzi gasieri e petroliferi, le aree di possibili estrazioni di terre rare e di passaggio dei cavi sottomarini. La Sicilia, posta nel cuore del Mediterraneo, da sempre suscita passioni ardenti e spasmodiche, poiché decisiva piattaforma di lancio per tutti coloro che aspirano ad estendere la propria proiezione strategica in tutto il Mare Magnum. Oggi è oggetto del contendere.
Da ottant’anni gioiello della corona a stelle e strisce, tassello ineliminabile per il dominio statunitense da Gibilterra all’Egeo, sebbene si trovi ancora nella piena disponibilità militare yankee, ha fatto girare la testa a più di qualche Stato negli ultimi anni. Nel recente passato, la Cina ha fatto i salti mortali per mettere le mani sul porto di Palermo, promettendo investimenti miliardari, salvo dover fare marcia indietro in seguito alla ferma opposizione USA. La stessa Unione Europea ha individuato nella nostra isola un polo di assoluta importanza per l’approvvigionamento energetico e di terre rare, così da poter incrementare la propria autonomia di rifornimento a discapito della Cina e degli Stati Uniti.
Nel frattempo, la Sicilia si trova stretta nella morsa coloniale italiana: uno Stato ormai ai margini della politica internazionale, privo di risorse per investimenti strutturali in ambito commerciale e produttivo, irrilevante nel Mediterraneo, sebbene questi rappresenti la sua naturale proiezione. Lo Stato italiano è destinato a morire, condannato alla periferia della Storia, rischiando di trascinare la Sicilia con sé, continuando a servirsene come polo di estrazione, cavando sangue anche dalle rape. Roma non è in grado di dare una direzione e una prospettiva all’interno del Mediterraneo alla nostra isola, la quale resta nella piena disponibilità degli Stati Uniti, che però hanno profondamente ripensato la funzione della Sicilia nella regione dal crollo dell’URSS in poi.
Gli Usa via dal medio oceano?
Dall’occupazione angloamericana del 1943, la Sicilia ha rappresentato il fiore all’occhiello della proiezione yankee nel Mediterraneo. Tassello utile al crollo dell’Asse, l’isola ha assunto fin da subito un ruolo di primo piano nel contenimento dell’URSS durante la Guerra Fredda.
A dispetto dei Trattati di Parigi del 1947, che ne prevedevano la completa smilitarizzazione, la Sicilia è diventata avamposto bellico nella terra di confine tra il dominio USA e il mondo comunista. “L’hub of the Med”, espressione utilizzata dai vertici statunitensi in riferimento alla Naval Air Station Sigonella, si è fatta sineddoche per indicare l’importanza della nostra isola come punta di diamante dell’influenza degli Stati Uniti nel Mediterraneo. Gli eventi che l’hanno vista coinvolta nel mezzo secolo successivo allo sbarco sono molteplici e noti ai più: dall’installazione dei missili Cruise nella base di Comiso, all’attacco missilistico della Libia contro Lampedusa nell’86, passando per la celeberrima crisi di Sigonella a seguito del dirottamento dell’Achille Lauro. Più in generale, l’isola ha funzionato come supporto logistico e di intelligence per le operazioni militari e, soprattutto, ha garantito agli Usa la possibilità di monitorare il fu Mare Nostrum nella sua interezza mediante il controllo delle uniche arterie che ne consentono l’attraversamento da est a ovest, ovvero gli stretti di Messina e di Sicilia.
Morto e sepolto l’esperimento profano sovietico, il posizionamento della Sicilia nella logica statunitense è certamente mutato. Non più prima linea nello scacchiere yankee, negli anni della lotta al terrorismo e dell’esportazione a buon mercato della democrazia è stata riorientata verso il Medio Oriente in funzione anti-irachena prima e anti-iraniana poi.
Oggi il quadro è ancora diverso. La fase di fragilità vissuta dagli Stati Uniti e la necessità di contenere la Cina nel Mar Cinese Meridionale hanno costretto Washington a ridurre la propria sovraestensione, concentrando le risorse nelle regioni considerate vitali per il mantenimento della propria egemonia. Si prendano in considerazione le dichiarazioni rilasciate alla rivista Limes nel 2021 da Giuseppe De Giorgi, ammiraglio italiano e capo di Stato maggiore della Marina militare italiana dal 2013 al 2016: «La valenza strategica dell’Italia per gli Stati Uniti è venuta meno durante le presidenze Obama e Trump perché il teatro del Mediterraneo è diventato marginale a occhi americani. Crollata l’Unione Sovietica, per Washington il nostro bacino è solo un canale di passaggio verso il Golfo Persico. La Sesta Flotta si è assottigliata moltissimo, tanto che la presenza americana nel Mare Nostrum si è ridotta a un gruppo navale basato a Rota, in Spagna. In tutto, quattro grandi cacciatorpedinieri classe Arleigh-Burke equipaggiati con sistemi antimissile che dovrebbero contribuire alla difesa europea in caso di attacco balistico contro il continente. Parliamo di navi che partecipano solo marginalmente al controllo americano del Mediterraneo».
Ciò non significa che gli USA abbiano perso interesse nei confronti della Sicilia, poiché l’isola rappresenta la conditio sine qua non per garantirgli un’influenza nel Mediterraneo, ma è evidente come l’egemone globale sia concentrato su fronti strategicamente più rilevanti. Questa distrazione è stata colta e sfruttata da diversi soggetti interessati ad estendere il proprio margine di manovra nel Mediterraneo, su tutti la Cina, principale competitor al dominio unipolare a stelle e strisce.
Il dragone alla caccia del Mediterraneo
L’importanza strategica del Mediterraneo per la Repubblica Popolare Cinese si inserisce all’interno del grande disegno della Belt and Road Initiative, il progetto per le Nuove Vie della Seta.
Riducendo la questione ai minimi termini, gli obiettivi vitali della BRI sono essenzialmente due. In primis, costruire fonti di approvvigionamento alternative al passaggio dallo stretto di Malacca, ad oggi in mano agli statunitensi che potrebbero servirsene per strangolare la Cina, impedendole l’accesso al suo principale canale di rifornimento. In secundis, la BRI ha lo scopo di estendere l’influenza geopolitica della Repubblica Popolare attraverso un aumento della connessione fisica, logistica e digitale in tutti i continenti, allargando le fila dei soggetti dipendenti e subalterni al dragone nella lotta senza quartiere contro gli Stati Uniti. In buona sostanza, le Nuove Vie della Seta ricoprono una decisiva funzione sia difensiva che offensiva nella strategia cinese.
I risultati ottenuti dall’avvio del progetto – ormai 12 anni fa – sono stati sicuramente positivi, con la costruzione di infrastrutture per il trasporto di merci e risorse energetiche dall’Europa fino all’Asia orientale attraverso tre continenti, sebbene l’aumento di conflittualità in giro per il mondo, in particolare in Medio Oriente, rischi di minarne la stabilità.
Per il nostro discorso è particolarmente utile porre l’accento sulla Via della Seta Marittima, basata sulla realizzazione di porti sottoposti al controllo della Repubblica Popolare dal Mar Cinese Meridionale fino a Gibilterra e, inevitabilmente, anche dallo stretto di Sicilia. Il Mediterraneo allargato costituisce il baricentro dell’intero progetto, nel quale la Cina si è inserita attraverso le crescenti relazioni politiche ed economiche con il continente africano quasi nella sua interezza. A quale scopo? Insidiare gli Stati rivieraschi appartenenti all’Alleanza Atlantica, penetrando nel continente nero a più livelli.
Secondo i media cinesi, al momento i paesi che hanno firmato un Memorandum of Understanding per entrare a far parte della BRI sarebbero 52¹. In particolare, la Cina si serve di una particolare tipologia di accordo dalle significative ricadute geopolitiche: la Resource-for-Infrastructure. Un patto che permette ai paesi che non dispongono di liquidità sufficienti per ripagare i debiti dello sviluppo infrastrutturale di scambiarli con risorse minerarie ed energetiche. Così la Repubblica Popolare si è assicurata l’oligopolio di straordinarie ricchezze e un’egemonia nel continente che ad oggi non ha rivali, sfruttando quella che viene definita “trappola del debito”. Un’arma politica con un peso specifico niente affatto trascurabile, ma che rischia di diventare una spada di Damocle per la stessa Cina, qualora il continente africano dovesse subire uno shock economico per ragioni belliche o sociali.
Parallelamente, dopo aver realizzato a Gibuti la sua maggiore base all’estero, in prossimità della sponda africana dello stretto di Bab el-Mandeb, è in trattativa con altri 12 Stati, tra cui Angola, Kenya, Seychelles e Tanzania, per realizzare ulteriori installazioni militari². Sul piano portuale, la Cina dispone di undici grandi strutture situate in nove paesi lungo una linea di faglia che parte dal Pireo in Grecia e raggiunge le coste della Repubblica attraverso il Mar Rosso prima e Arabico poi. Tutto ciò senza contare le partecipazioni acquisite per terminal container in Egitto, Marocco, Malta, Turchia, Spagna, Francia, Belgio e Paesi Bassi, con buona pace – si fa per dire – del governo degli Stati Uniti³.
Alla luce di ciò risulta lampante perché negli scorsi anni la Cina abbia ampiamente corteggiato lo Stato italiano per ottenere quote di minoranza di porti della penisola e, in particolare, quello di Palermo. Mettere le mani sul traffico marittimo passante per la Sicilia avrebbe determinato la messa in discussione dell’impero mediterraneo a stelle e strisce colpendolo direttamente al cuore.
L’interesse della Repubblica Popolare per i porti italiani non è certo una novità; già nel 2016 la China Ocean Shipping (Group) Company acquisì il 40% delle quote del terminal container di Vado Ligure, e cinque anni dopo tentò di replicare l’impresa con quello di Palermo. Le compagnie cinesi COSCO Shipping Ports e China Merchants Port Holdings nel 2021 presentarono alle autorità della Regione Siciliana un piano di investimenti da 5,67 miliardi di dollari per realizzare e gestire una mega piattaforma per il trasporto di container nel capoluogo dell’isola⁴. La trattativa si risolse in un nulla di fatto a causa della ferma contrarietà degli Usa, che obbligarono Roma e Palermo a fare un passo indietro, tanto da spingere Giorgio Mulé, al tempo sottosegretario di Stato al ministero della Difesa, a dichiarare pubblicamente che il porto di Palermo dovesse sfuggire alle mire commerciali o espansionistiche cinesi.
In buona sostanza, la Cina agisce su più livelli nel Mediterraneo allargato, sfruttando il soft power come cavallo di Troia per ampliare la propria egemonia, proteggere i propri interessi commerciali e, soprattutto, andare all’attacco degli Stati Uniti insidiandoli direttamente dentro i propri domini europei.
Al di là del ruolo giocato dalle due principali potenze mondiali, la partita per la ridefinizione dei rapporti di forza nel Mediterraneo vede coinvolti tutti i soggetti statuali e non solo – vedasi gli Houthi in Yemen o Hamas a Gaza – che si affacciano sul Medio Oceano. Dall’attivismo turco e israeliano per rompere l’equilibrio di potenza oggi vigente nel risiko mediorientale, fino al tentativo iraniano di evitare l’accerchiamento di Tel Aviv avviatosi con la nascita degli Accordi di Abramo, senza dimenticare la crescente presenza russa in Nordafrica e nel Sahel, nessuno pare disposto a chiamarsi fuori della battaglia.
I focolai di guerra si allargano a macchia d’olio nell’intera regione; il Mediterraneo ribolle e noi siciliani, complice anche la passività di Roma, rischiamo di bruciarci.
Note:
¹Faleg Giovanni. L’Africa Geopolitica. Strategie e scenari nell’era multipolare, Carocci, Roma, aprile 2024, p.29.
²Molinari Maurizio. Mediterraneo conteso. Perché l’occidente e i suoi rivali ne hanno bisogno, Rizzoli, Milano, novembre 2023, p. 43.
³Dell’Aguzzo Marco. Il governo blocca il piano della cinese Cosco per il porto di Palermo in «Start Magazine», 29 marzo 2022.
⁴Pepi Giambattista. La Cina alla conquista del Mediterraneo mette le mani sul porto di Palermo in «Quotidiano del Sud», 1 dicembre 2021.