• Draghi e il fallimento dei Migliori

    Draghi e il fallimento dei Migliori
    Negli ultimi giorni si è consumata una nuova crisi di governo, la sessantasettesima della storia della Repubblica Italiana, la terza di questa legislatura. L’atto conclusivo di un governo destinato a crollare su sé stesso fin dalle origini: nasceva infatti dalla forzatura di un Governo di Unità Nazionale, costruito attorno al prestigio del Premier Mario Draghi (il “Migliore” per l’appunto), oggetto fin dal primo giorno di una spietata strategia propagandistica, presentato come l’unico uomo in grado di trascinare il paese fuori dalla crisi economica in cui era inevitabilmente sprofondato a causa della pandemia, con un occhio di riguardo (e anche qualcosa di più) alle imprese.
    Draghi è stato scelto dalle istituzioni europee per gestire i fondi del PNRR e la ripartenza post pandemica, e per garantire la stabilità di un esecutivo di “Unità Nazionale”, ovvero il più ampio possibile e privo di opposizioni interne al parlamento (fatta eccezione per Fratelli d’Italia, che ha infatti giovato del ruolo di avversario) con il voto di fiducia come strumento imprescindibile per mettere a tacere qualunque malumore.
    Con lo scoppio della guerra in Ucraina i nodi sono venuti al pettine. Il Premier ha recitato infatti il ruolo dell’alleato più fedele alla Nato, accompagnando all’obbligato impegno internazionale assunto dall’Italia con l’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil, un’entrata a gamba tesa nel dibattito pubblico a far sfoggio dell’allineamento con il blocco statunitense. «Pace o condizionatore acceso?» è la sfida che ha lanciato ai cittadini. «Con me o torno a occuparmi dei conti in banca» è la minaccia lanciata al parlamento, in particolare a Lega e Forza Italia (affinché dimenticassero la storica simpatia per Putin, dal quale hanno pure ricevuto finanziamenti negli scorsi anni) e al Movimento 5 stelle, che più di altri si è esposto contrario all’invio di armi in Ucraina.
    Prima lo scacco portato avanti muovendo l’ormai alfiere di Draghi, Luigi Di Maio, che abbandona il Movimento, immolandosi per la Nato e il riarmo, sperando di essere in qualche modo ricompensato, pur di non tornare a cercar lavoro; poi la risposta di Conte con l’astensione sul DL Aiuti, che ha fatto concretizzare la minaccia di Draghi sulle dimissioni, subito salito al Colle – nonostante la fiducia numericamente non mancasse. Le strette sul Reddito di Cittadinanza, l’assenza di una proposta legislativa per il salario minimo e l’inceneritore di Roma, inserite nel DL Aiuti, sono risultati le ultime gocce a far traboccare il vaso.

    La fine della parabola dei 5 stelle

    Per Conte, uscire dall’esecutivo di Unità Nazionale, passando all’opposizione del Governo Draghi, era la mossa obbligata, il tentativo disperato per provare a recuperare consensi, dopo la caduta a picco degli ultimi mesi, in vista delle prossime elezioni fissate per la primavera del 2023. Ma dopo l’astensione sul DL Aiuti – approvato il 14 luglio con 95 voti favorevoli – nonostante la maggioranza numerica, Draghi è salito al Colle per rassegnare le dimissioni.
    Da qui il caos: tutti i partiti si sono lanciati in nevrotici e contraddittori tentativi di preservare i propri interessi, che andavano ben oltre la tenuta del governo. Il PD e il centro macedonia, composto da Italia Viva, +Europa, Azione e il neonato Insieme per il futuro, hanno espresso il loro totale e incondizionato sostegno al Premier dimissionario e, mentre il PD si è trovato in imbarazzo nel criticare gli oramai probabilmente ex alleati strategici a 5 Stelle, gli ingenui sognatori del superamento della soglia di sbarramento si sono scagliati ferocemente contro i pentastellati, accusandoli di aver messo i propri interessi elettorali davanti alle esigenze del paese, dichiarandosi pienamente favorevoli al proseguimento del governo del Messia venuto da Bruxelles, con una maggioranza da cui i grillini sarebbero rimasti esclusi.
    La variabile imprevista durante il voto di fiducia al governo, del 21 luglio, è venuta dal centro-destra, con Lega e Forza Italia che abbandonano l’aula prima della votazione, pur di non permettere ai pentastellati di portare a termine la strategia del passaggio all’opposizione. Si punta alle elezioni anticipate a settembre, che sembrano prospettare una vittoria del centrodestra.
    Il tentativo riuscito è quello di isolare e frammentare il Movimento 5 Stelle, che in Italia ha rappresentato l’ultimo baluardo che negli ultimi 10 anni ha portato avanti, seppur esclusivamente durante le campagne elettorali, una opzione partitica antisistema, capace di costruire partecipazione politica, istituzionale e di piazza.

    Il riflesso della crisi governativa in Sicilia

    Anche la politica siciliana non rimane esente dai giochi di palazzo che stanno animando le sedi romane. Le elezioni regionali sono alle porte e ancora la confusione sotto il cielo è tanta. I fragili equilibri che avevano retto per le comunali a Palermo si rimettono in discussione per le prossime presidenziali con un centrodestra ancora spaccato che stenta ad accordarsi e un debole fronte progressista che vede correre insieme PD e 5 Stelle in una anomalia tutta nostrana rispetto alla situazione italiana. Nella giornata di ieri si sono svolte le primarie per la scelta del candidato di centro sinistra: come da sondaggi, sarà Caterina Chinnici, in quota Pd, ex Assessore Regionale del governo di Raffaele Lombardo. Anche stavolta si sono rivelate uno stanco rito senza alcuna propulsione, con una partecipazione sempre più scarsa (hanno votato circa 33 mila siciliani), che si tiene nell’imbarazzo generale di ex alleati che nel quadro nazionale, con ogni probabilità, andranno divisi.
    A destra, con vertici disertati da Fratelli di Italia e tiro alla fune sul nome del candidato (unico?) da presentare, si riapre la gara tra il Partito della Meloni – che esce vincitore dalle amministrative palermitane e dal quadro nazionale – e Forza Italia che rivendica il suo turno per l’espressione del nome.
    In questo contesto si aprono diversi scenari possibili: dalle dimissioni anticipate di Musumeci per far coincidere elezioni regionali e nazionali da un lato, alla possibilità di più di un candidato per il centrodestra, fino al mantenimento della data prestabilita per novembre e l’utilizzo dell’appuntamento nazionale come ulteriore cabina di prova per gli equilibri dei partiti nazionali.
    Corre da solo Cateno De Luca, ex sindaco di Messina, ora candidato a Sindaco di Sicilia, già in piena campagna elettorale da settimane, pronto a capitalizzare su di sé la confusione dell’elettorato di centrodestra. Ancora da chiarire le mosse di Cuffaro e Lombardo, destinati in qualche modo a spostare gli equilibri.

    La risposta sociale alla crisi della rappresentanza

    In un paese in cui i governi non riescono quasi mai a sopravvivere per più di due anni, resta da interrogarsi sulle ragioni dell’instabilità governativa.
    Le forze politiche, che durante la campagna elettorale propongono programmi politici contrapposti, in un clima di scontro tra visioni del mondo apparentemente inconciliabili, iniziano a soffrire di amnesia selettiva il giorno dopo la fine delle elezioni, stipulando accordi di ogni genere quando gli interessi lo richiedono.
    La legislatura appena tramontata è l’emblema di questo fenomeno, iniziata con le elezioni del 2018 che avevano premiato i 5 stelle, finiti al governo in coalizione con Lega, passati poi col Pd nel Conte bis e finiti nel Governo di Unità Nazionale dopo la seconda crisi.
    Il trasformismo politico dei parlamentari, seppur meno evidente perché compiuto da singoli, risulta ancora più subdolo: quando un partito di governo inizia a perdere consenso nei sondaggi, i parlamentari più ambiziosi abbandonano la nave che affonda per dirigersi verso il più attraente “nuovo che avanza”. Sarà anche il caso di Gelmini e Brunetta che hanno appena abbandonato Forza Italia?
    In ogni caso, appare evidente come le differenze partitiche dentro l’arco istituzionale non siano espressione di diverse visioni della società e non abbiamo nulla a che vedere con gli interessi dei cittadini. Conclusa la parabola dei 5 stelle, che hanno rappresentato l’ultimo residuo di stampo populista, chiunque governa potrà farlo tranquillamente, senza grosse urla in Parlamento, certamente non sulle manovre principali.
    Ma il mondo reale è fuori. È il mondo con l’inflazione alle stelle, il continuo aumento dei prezzi e la concreta possibilità di un razionamento dell’energia nei mesi a venire, con l’incognita sulla gestione dei riscaldamenti nell’inverno. Il costo della vita aumenta, i salari no: si scontrano le esigenze di tenuta sociale della governance, con le pretese dei grossi imprenditori e dei banchieri; si criminalizzano i percettori di reddito e i giovani, reticenti ad accettare condizioni di sfruttamento estremo e paghe misere.
    Se le condizioni di lavoro e di vita dei proletari peggioreranno – soprattutto in Sicilia, in cui la crisi pandemica e ora quella scaturita dai nuovi equilibri internazionali emersi dalla guerra in Ucraina hanno trovato un’economia già fortemente devastata – le possibilità di una risposta sociale, già anticipata durante quest’anno dalle mobilitazioni studentesche, aumentano.
    È sul piano del ritorno dello Stato con il ruolo di controllare e proteggere le strutture economiche, sociali, istituzionali attuali, con l’irrigidimento delle misure repressive, che si gioca la partita di chi governa a bloccare le spinte sociali di trasformazione. Organizzare e allargare queste spinte in Sicilia, è la partita che sia apre per noi.

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