• Madonie: tra spopolamento e diritto alla salute negato

    Madonie: tra spopolamento e diritto alla salute negato

    Sulle Madonie esiste una nuova realtà. ControCanto è un gruppo di abitanti che vuole contrastare l’attacco destrutturante alla propria comunità, dallo spopolamento, al definanziamento dei servizi, fino al decentramento delle decisioni politiche.

    Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Giuseppe Dino, Loredana Sabatino e Pietro Polito sulla lotta contro lo smantellamento dell’ospedale di Petralia, su cosa significa diritto alla salute e quale sembra essere il futuro deciso per le aree interne siciliane. Riportiamo di seguito la trascrizione.

     

    Quali sono le caratteristiche del territorio madonita? Quanto è esteso il comprensorio che fa riferimento all’ospedale di Petralia sottana? Qual è la sua importanza?

    Pietro: Bisogna considerare che l’ospedale di Petralia Sottana copre un territorio che a livello di estensione è abbastanza vasto. A livello di popolazione, col progressivo spopolamento dei paesi e il calo demografico, attualmente nelle alte Madonie siamo un po’ meno di trentamila abitanti.

    Però serve tenere conto del fatto che questo è stato per anni un polo a cui afferivano persone di diversi altri paesi. È un ospedale che comprende l’area che va da Gangi – quindi siamo quasi al confine con la provincia di Enna – fino a Polizzi, ma anche a Caltavuturo, quindi ci inoltriamo un bel po’ verso Scillato-Termini.
    Per tanti anni, è stato un polo di eccellenza della neonatologia, venivano persone da altre parti della Sicilia anche dalla costa a partorire qua. Considera, tanto per farti un esempio, che tutti i miei compagni del liceo erano nati a Petralia Sottana. Tutti quelli che erano di Gangi, di Caltavuturo: tutti nati a Petralia Sottana.
    Era un ospedale che, prima nella sua sede storica – l’ex Barone Paolo Agliata, nel centro storico di Petralia – e poi nella sua nuova sede quando è diventato ospedale Madonna Santissima Dell’Alto, ha sempre mantenuto e dato un importante contributo al mantenimento del diritto alla salute.

    Da un certo punto in poi è stato oggetto di un depotenziamento mirato, voluto soprattutto dall’esterno.

    Ti faccio degli esempi: Il nostro ospedale aveva l’ortopedia, e l’ortopedia è fondamentale per un territorio come questo, tra l’altro un territorio che invecchia, dove lesioni e fratture al femore sono all’ordine del giorno.
    Quando è stata chiusa, intorno al 2011, noi ci troviamo in questa situazione: un tuo familiare si rompe il femore; viene portato a Petralia, dove cominciano a chiamare gli altri ospedali e a chiedere: «la signora si è rotta il femore, a Termini c’è posto? No», «a Cefalù c’è posto? No», «a Palermo, c’è posto? No», «E a Mussomeli? Niente».
    Cominciano le telefonate anche in altre province e alle volte rischi di essere sbattuto chissà dove, addirittura una volta è capitato che c’era un posto in Calabria.
    Quindi tu immagina quello che succede a un paziente e alla sua famiglia. Perché il paziente è paziente per definizione, e quindi il problema non se lo pone perché deve andare in ospedale e deve essere curato, ma la famiglia che lo deve seguire come fa?

    Giuseppe: Aggiungo un’altra nota di tipo territoriale. Le Madonie sono un territorio prettamente montuoso, cioè l’altimetria media è sopra i 750 metri, quindi parliamo di paesi dispersi (cioè distanti l’uno dall’altro e concentrati su territorio molto ampio con varie frazioni) con un clima che non è quello tipico mediterraneo; si va incontro a inverni molto rigidi, con difficoltà di circolazione autostradale, presenza di ghiaccio, una viabilità totalmente abbandonata. Io due settimane fa ho forato una gomma, subito dopo lo svincolo autostradale di Irosa. Ho chiamato il gommista e mi ha detto «sei il nono che mi chiama negli ultimi tre giorni, solo che chiama me, quindi immagina tutti i gommisti della zona».  Tu immagina un’ambulanza che porta un infartuato, e prende in pieno una buca allo svincolo autostradale. Cosa succede?

    Inoltre, nel territorio di Petralia Sottana, che è credo uno dei più ampi della Regione Siciliana, il secondo in provincia di Palermo dopo Monreale, ricade una delle principali stazioni sciistiche, uno dei luoghi di attrazione principali della montagna: Piano Battaglia. Al momento gli impianti sono fermi per tutta una serie di problemi, legati anche quelli alla strategia precisa di demolizione e destrutturazione delle Madonie.

    Attenzione, non è un caso del destino, è una strategia mirata, miratissima.

    Nonostante ciò, in questi giorni, proprio perché il luogo è lasciato all’abbandono, ci sono svariati casi di traumi, di persone che vanno lì con i sacchetti, con le padelle, scivolano, si fanno male e l’ambulanza deve partire. C’è stato un caso qualche anno fa di una signora con un polmone perforato da una costola che aveva sì e no venti-trenta minuti di vita scarsi. All’ospedale di Petralia è stata salvata. Se il depotenziamento dell’ospedale dovesse andare ancora avanti quella signora o altri traumi gravi, non è che avrebbero poche speranze, non ne avrebbero, punto.

    E così, quindi, l’aspetto territoriale è importante. Dico le distanze: Petralia – Cefalù siamo a un’ora e venti circa; Petralia – Palermo un’ora e mezza, ma solo per arrivare alle porte di Palermo. Quindi per raggiungere il Policlinico, che è l’ospedale più vicino, traffico permettendo, chissà. È vero che c’è l’elisuperficie, ma io vorrei fare una statistica e capire nel periodo invernale quante sono le giornate che permettono l’atterraggio dell’elicottero a Petralia Sottana.

    Per ultimo, e qui ritorniamo al discorso del punto nascite, ti ricordo la notizia tremenda di qualche mese fa di un neonato morto in macchina, perché la madre doveva dirigersi da Mistretta all’ospedale più vicino. Ecco, qui, fino ad ora, non è successo – ma le condizioni ci sono tutte. Potrebbe succedere anche stanotte, perché le condizioni sono simili a quelle, se non più gravi.

    Pietro: La questione dell’elisuperficie molto spesso è stata posta come la panacea di tutti i mali. Eppure, ci sono moltissimi casi di persone o testimonianze di operatori che raccontano di come l’elicottero non sia partito perché c’è brutto tempo o nebbia o vento. Quindi poi ci troviamo a mettere i pazienti nelle ambulanze, con le nostre strade, con i tempi di percorrenza che sono tutt’altro da quelli che teoricamente vengono calcolati. Per arrivare a Termini, in teoria, ci vuole anche meno di un’ora. Ma se viaggi con un’ambulanza su queste strade ci vuole più di un’ora.

    Loredana: Non ultimo, poche settimane fa l’elisoccorso è partito perché un paziente doveva essere trasferito per un aneurisma di urgenza. Quasi nell’arrivare, il mezzo ha avuto un’avaria, quindi è stato costretto a ritornare indietro. Possiamo immaginare quello che ha dovuto sopportare il paziente. È stato stabilizzato per quanto possibile, caricato sull’ambulanza e poi portato nell’ospedale che lo poteva soccorrere.

    Giuseppe: L’ospedale così come è ora, con i suoi standard moderni, nasce negli anni Sessanta. Qui si è passati da avere delle unità operative complesse (chirurgia, cardiologia ortopedia e ginecologia) in cui si seguivano anche operazione di un certo livello, a un declino via via sempre più grave, per arrivare ad oggi, in cui ormai non esiste più il reparto di ortopedia da quasi dieci anni, il punto nascita è stato soppresso, la chirurgia è diventata unità operativa semplice (quindi si fanno soltanto operazioni di routine), i medici che vanno in pensione non vengono rimpiazzati e quelli nuovi chiedono subito il trasferimento perché non vogliono venire a stare a Petralia – sia per motivi geografici che per motivi di carriera. I medici più giovani preferiscono andare in centri più dinamici, professionalmente più rilevanti. Io ho prenotato una visita cardiologica, me l’hanno annullata perché il cardiologo che prima faceva ambulatorio è stato richiamato in reparto, perché non c’erano più medici. E quindi cosa facciamo? Anziché chiamarne di nuovi, sopprimiamo il servizio dell’ambulatorio, e ci possiamo andare a cercare il cardiologo a pagamento.

    Siamo praticamente nel depotenziamento totale. Parallelamente si è visto il sorgere di una struttura privata che offre una vasta gamma di servizi ambulatoriali specialistici a Madonnuzza, frazione di Petralia Soprana. Fin qui tutto bene. Se non fosse che il titolare di questo poliambulatorio privato, che ormai è quasi un mini-ospedale, è il Sindaco di Petralia Soprana, che quindi dovrebbe combattere per la sanità pubblica. Il conflitto di interessi ci sembra inevitabile…

    Pietro: Lui non ha mai negato di combattere per l’ospedale. Però, è chiaro che se gli alberi si vedono dai frutti, i frutti di quello che ha fatto vanno in una direzione diversa. Tra l’altro lui assomma: medico di base, sindaco, titolare di clinica, e quindi capisci bene che per lo meno un conflitto di interessi forse dovrebbe essere evidenziato.

    Succede spesso questo: non è da sottovalutare che molti dei medici che sono qui in ospedale spesso siano sovraccaricati. Capita che ci siano medici che sono stati costretti ad andare dal pronto soccorso al reparto Covid. Di fatto, in questi mesi i chirurghi venivano portati al pronto soccorso con la totale chiusura di ogni servizio di chirurgia.

    Le vostre battaglie negli ultimi anni si sono concentrate sulla chiusura del punto nascita, raccontateci la vicenda.

    Pietro: La questione del punto nascite è una questione un po’ particolare. Il punto nascite è stato chiuso nel 2016, perché non raggiungeva il numero di parti minimo affinché ci fosse l’expertise necessario da parte dell’equipe per far nascere in sicurezza un bambino – riporto le parole che sono state dette ai tempi.

    Si diceva «la legge dice 500 parti». Noi siamo andati un po’ a spulciare in quegli anni quali erano le fonti normative. In Italia avevano ripreso un’idea che era dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. L’Organizzazione Mondiale della Sanità dice che «se un’equipe non ha la giusta esperienza non può operare e dare la sicurezza alle partorienti». Solo che l’Organizzazione Mondiale della Sanità non parlava di 500 parti, parlava di 1000 parti. Questo è stato un valore che è stato derogato a livello nazionale in Italia, perché? Perché si sono fatti i conti più o meno di quali ospedali e di quali punti nascita sarebbero andati a chiudere. Non certamente quello del Buccheri La Ferla, che ne fa più di mille, anzi quasi 2000; non certamente quello del Policlinico, che nel 2016 faceva 790 parti.

    L’anno in cui noi siamo stati chiusi, mi pare che ci aggirassimo sul centinaio di parti o poco più. Quell’anno, stranamente il punto nascita di Petralia viene chiuso per un paio di mesi, due/tre mesi, per lavori. Le donne che dovevano partorire venivano mandate a Termini. Termini Imerese quell’anno chiude con 501 parti.
    Petralia e Termini sono all’interno della stessa ASP, l’ASP 6.

    La legge non era dalla nostra parte, ma si sarebbe potuta fare una deroga. Non si è tenuto conto per niente dell’ubicazione di Petralia, della condizione delle strade, della dispersione dei paesi, e del decreto Balducci. Il decreto Balducci dice che tu devi avere un punto nascita se c’è una distanza superiore ai 60 minuti dal punto nascite più vicino.
    Sono state fatte le tabelle orarie dicendo che noi eravamo sotto i sessanta minuti e potevamo essere chiusi. La realtà è che noi il novanta percento delle volte i sessanta minuti li tocchiamo per forza, obbligatoriamente. E ci sono casi di donne che hanno partorito nell’ascensore dell’ospedale di Termini.

    Noi non ne abbiamo fatto mai una questione di carta d’identità. Il problema non è avere Petralia Sottana scritto nella carta d’identità o avere il codice fiscale che finisce con G511. Vogliamo solo avere dei parti in sicurezza.

    L’ingegnere Mario La Rocca, direttore dell’ASP, ha detto a Petralia Sottana durante la quinta commissione regionale alla sanità, fatta appositamente in ospedale per la questione del punto nascite, «va beh, affittatevi un bed e breakfast a Termini»; gli è stato risposto «va bene, ma chi lo paga il bed e breakfast a Termini?».
    Qui c’è un problema di diritto. Qui dobbiamo decidere se le donne delle Madonie, sono donne di serie A o di serie B, se ci sono pazienti di serie A o di serie B, se esiste il diritto per noi e non esiste per gli altri, o se noi dobbiamo scontare la colpa di vivere su queste montagne, come se vivere qui fosse una colpa, perché alle volte questa è la percezione.

    Giuseppe: In altri casi di chiusure di punti nascite molte Aziende Ospedaliere, comitati civici e amministrazioni optarono per il ricorso, ottenendo la deroga. Le nostre amministrazioni locali non fecero ricorso, ma optarono per la via politica perché al governo regionale c’era Crocetta e gli amministratori locali delle Madonie erano per buona parte del PD. Dicevano di avere tutte le carte in regola per percorrere la via politica. Questi sono i risultati della via politica.

    Pietro: C’è da dire un’altra cosa. Quando si fa un nuovo piano di riassetto sanitario, i Sindaci con parere non vincolante vengono convocati per dare il loro parere sulla questione. Ogni volta, anche nell’ultimo riassetto sanitario che ci ha levato pure il laboratorio analisi, i Sindaci delle Madonie hanno sempre votato per il SI.

    Quando è arrivato il reparto Covid tutti noi abbiamo detto «attenzione è una polpetta avvelenata» perché è un altro tassello che porterà alla chiusura dell’ospedale. Nel momento in cui noi abbiamo detto questo si è scatenato il putiferio. Ci hanno accusato di non capirne il potenziale per l’ospedale.
    Secondo quello che ci avevano detto i Sindaci, dovevano arrivare due TAC: una per l’ospedale e una per il reparto Covid. Nel momento in cui è arrivata la nuova TAC, il Sindaco di Petralia mi dice «hai visto che è arrivata? Hai visto che comincia il potenziamento?». Gli ho fatto presente che quella TAC – e ne è arrivata una sola -faceva parte di una gara dell’Asp del 2018, quando ancora il Covid non esisteva.

    Ora, a prescindere dall’idea che noi possiamo avere, dalle differenze di idea politica che noi possiamo avere rispetto alle amministrazioni, purtroppo c’è da dire che a livello territoriale, a livello regionale, questo ospedale, come altri ospedale minori, è considerato (e penso di non poter essere smentito) un peso.
    La valutazione si basa su che numeri si fanno. La sanità non dovrebbe essere fatta solo di numeri, ma anche di livelli essenziali di assistenza, di prospettiva. Noi abbiamo una struttura enorme. È una struttura che può ospitare diversi servizi, e che potrebbe, ne abbiamo parlato anche con medici che sono più esperti di noi nel campo, assicurare una serie di possibilità anche di Cooperazione fra Aziende Sanitarie. Cose che si fanno da altre parti.

    La mission va bene, ma i livelli di assistenza devono essere garantiti, e attualmente non sono garantiti, questo è chiaro.

    In questi mesi si sta aprendo un nuovo tema, quello dell’ospedale di comunità. Cosa comporta questo progetto? Perché vi opponete?

    Giuseppe: Si tratta di un ospedale in cui non ci sono sale operatorie; quindi, non si trattano i casi acuti, se non a livello di pronto soccorso; il caso acuto viene stabilizzato e inviato in altri reparti. Vengono accolti dei pazienti che vengono dimessi dai reparti di altri ospedali e hanno bisogno di cure di minore intensità, di lunga degenza, per essere riabilitati o per prepararli alla terapia domiciliare. C’è una sezione dedicata anche all’hospice per i malati cronici o i malati terminali. Cerca di coprire una fascia di persone che hanno bisogno dell’infermiere perché soli non ci possono stare, ma non hanno bisogno di cure particolari del medico.

    Ma non esistono i reparti di un ospedale standard. Qui non troverai la chirurgia, l’ortopedia… Data la situazione dell’ospedale di Petralia – quindi pochissimi servizi attivi che stanno andando ad esaurimento, medici che non vengono rimpiazzati e servizi che vengono via via sottratti – parallelamente si apre l’ospedale di comunità.

    L’assessore Razza e la politica regionale con l’avallo dell’amministrazione locale presentano questa come una grandissima opportunità di potenziamento nel nostro ospedale. In realtà cosa succederà? Che rimarrà l’ospedale di comunità, i servizi presenti oggi via via andranno a morire, non verranno potenziati o rimpiazzati, per cui nel giro di pochi anni i servizi del vecchio ospedale spariranno e rimarrà solo l’ospedale di comunità, in cui noi praticamente non potremo mai più far fronte a un caso in emergenza o un caso acuto.
    Qual è il gioco dell’assessore? Quando gli si dirà «tu hai chiuso l’ospedale di Petralia» lui ti potrà dire «no, non è vero. Anzi! Io ti ho aperto l’ospedale di comunità. Dovresti ringraziarmi».
    Più che altro lui ipocritamente sta favorendo il declino dell’ospedale propriamente detto, ma formalmente non lo sta chiudendo. Questo è un gioco subdolo. Per cui: favorisco la morte di uno, favorisco la nascita dell’altro, in modo da sbarazzarmi dal peso del vecchio ospedale.

    Ci sono Sindaci in questo momento nel resto della Sicilia che si stanno scannando perché vogliono la casa di comunità, l’ospedale di comunità. Perché sono soldi, sono posti di lavoro e addirittura nel piano della Regione c’è scritto che se tu non hai la struttura per ospitare l’ospedale di comunità, la puoi costruire ex novo. Quindi per ora c’è la gara in corso.

    Ma noi pensiamo, per paradosso – perché noi in teoria dovremmo essere contenti – che quello che si voglia fare è sostituire l’ospedale esistente con l’ospedale di comunità. E l’ospedale di comunità non è un ospedale, è una specie di RSA potenziata, di lunga degenza, potenziata con dei servizi medici, cosa che tra l’altro noi già abbiamo. È essenzialmente infermieristica, il medico c’è per un numero limitato di ore e non fa quello che deve fare. Noi chiediamo certezze. Se l’ospedale di comunità deve essere fatto, che ben venga! Ma chiediamo certezze su come, dove, in che tempi e quali servizi rimarranno all’ospedale, quello che c’è ora. Perché altrimenti i livelli essenziali di assistenza non saranno mai garantiti.

    Loredana: Da considerare pure che l’ospedale di comunità non ha un bacino di utenze sostanzioso, si va da venti a quaranta posti letto massimo. Quindi in un comprensorio come il nostro dove più o meno dovremmo essere ventitremila abitanti, capisci bene quanto irrisoria sia pure questa cosa, rispetto ai reparti che comunque sicuramente in questo momento possono ospitare più persone, tra pronto soccorso, medicina e chirurgia.

    Giuseppe: Faccio un altro esempio, giusto per farti capire su quali ordini di priorità si muovono la politica regionale e soprattutto i dirigenti regionali, a partire dall’ingegnere Mario La Rocca (che poi è quello famoso per le intercettazioni dei trabocchetti e delle magie per far risultare l’indice dei ricoveri tale da non andare in zona rossa).

    Quando è arrivato il reparto Covid qui a Petralia il poliambulatorio, che era allocato al primo piano dell’ospedale, è stato spostato in un’altra struttura. Sia il poliambulatorio che la RSA, dove ci sono pazienti con patologie croniche, disabili e via dicendo, sono stati spostati su un altro plesso che è l’ex Convento dei padri riformati, che diciamo non è strutturato per accogliere un poliambulatorio.
    È stato spostato perché si è detto che non poteva coesistere con il reparto Covid. In realtà, quasi in tutti gli ospedali di Palermo, ma penso anche in tutta la Sicilia, il reparto Covid coesiste benissimo con tutti gli altri reparti ospedalieri. Hanno applicato le porte, i filtri – cose che possono benissimo essere applicate all’ospedale di Petralia.
    Da due anni a questa parte si reclama il ritorno del poliambulatorio al suo posto, e la dirigente Faraoni dà il suo diniego perché non è possibile far sussistere le due cose, con notevole disagio da parte degli utenti. Per un periodo anche il polo vaccinale è stato delocalizzato su un’altra struttura ancora, dove i pazienti erano costretti ad aspettare fuori. Tu immagina com’è piacevole l’inverno di Petralia. Cinque gradi, quattro gradi, tre gradi. L’ottantenne che deve aspettare, intanto si fa venire l’influenza, così accumula tutte le malattie.

    È una precisa strategia volta a demolire e destrutturare il tessuto madonita in tutti i suoi aspetti. Oggi abbiamo visto quello sanitario, ma potremmo raccontare tutto il resto, a partire da Piano Battaglia.
    Poi ci chiediamo, quando fanno i servizi o gli articoli sulle case a un euro, sugli incentivi per tornare ad abitare… sono tutte operazioni inutili, sono tutte operazioni di marketing, ipocrite, inutili. Che cosa me ne devo fare io della casa a un euro qua, se poi posso morire, non ho uno straccio di servizio. Che cosa me ne faccio? Perché devo venire ad abitare qua se poi ho il nulla attorno a me, ho una casa nel deserto e non posso mettere su famiglia perché mia moglie, mia figlia o chiunque non riceverebbe l’assistenza adeguata. È tutto inutile. Al massimo mi prendo la casa a un euro e ci vengo una volta all’anno per andare a scivolare con i sacchi dell’immondizia a Piano Battaglia e questo è l’arricchimento del territorio. Per fare cosa? Per avere ristrutturata una casa in centro storico? Inutile.

    Questi fenomeni che abbiamo analizzato non sono casuali. Sono due i nodi fondamentali.  Uno è l’idea di salute – cosa vuol dire sanità pubblica? Cosa vuol dire diritto alla salute? È un diritto per tutti, indiscriminato o è estremamente legato a parametri? Il secondo è il progetto per le Madonie: non serve che a Petralia ci siano i servizi di base, non serve che la gente rimanga a vivere a Petralia. La Sicilia in generale e le aree interne in particolare stanno subendo un processo di spopolamento incredibile. Allora perché si dovrebbe tenere l’ospedale a Petralia? Perché si dovrebbero avere strade percorribili?

    Giuseppe: Insieme ad altri ragazzi abbiamo creato un sondaggio sulle aree interne rivolto agli emigrati. Anche io sono stato emigrato, sono stato fuori tre anni. Mi trovavo a parlare con tante persone madonite e non, e la discussione era sempre la stessa. Tutta una serie di cose bellissime: quanto è bello il territorio, il paesaggio, le passeggiate, il mare, il cibo, gli amici, tutto quello che vuoi. Poi quando chiedevo «dimmi una cosa, se domani mattina sotto casa tua a Petralia aprono la filiale della tua azienda, torneresti? Visto che ti piace così tanto».

    Ecco, lì crollava tutto l’impero. Quasi nessuno diceva sì. Questo cosa significa? Che la mancanza di lavoro non è l’unica causa dello spopolamento, ma potrebbe essere una conseguenza di altri fattori molto più complessi, ovvero la mancanza di servizi, la mancanza di opportunità, la mancanza di stimoli. Diciamo che il panorama è molto complesso da indagare.

    Si guarda sempre al borgo come il presepino, la chicca, visto più come un paesino dove andare a trascorrere il fine settimana e non dove andare a vivere. E quando si presentano i casi di quei ragazzi che riescono a vivere, a tornare alle aree interne, sembrano quasi degli eroi, oppure fanno dei mestieri incredibili, laureati con master in architettura, hanno lavorato con Renzo Piano, e poi tornano a fare i pastori. Ma non può essere per tutti così. Quindi bisogna fare una narrazione realistica di queste benedette aree interne. E senza dubbio la percezione che si ha è che nonostante i proclami e i fondi e diciamo le dotazioni finanziarie per le aree interne, la strategia sia sempre quella. Quella di depauperare, di drenare risorse verso i grandi centri.

    Le aree interne, non è che sono dimenticate, peggio! Sono prese di mira e volutamente depauperate di servizi.

    Loredana: La salute è un diritto innegabile, tocca veramente la carne delle persone. Perché se tu non garantisci i servizi base è ovvio che questo influisce anche sullo spopolamento, quindi via via purtroppo queste zone se si continua su questa strada sono destinate a morire. Ovviamente noi vorremmo che si attenzionasse questo problema proprio per evitare che ci sia un declino totale anche sugli altri campi. E soprattutto una cosa su cui mi piacerebbe porre l’attenzione è anche questa: prima di fare un progetto bisogna conoscere il territorio dove vai a farlo, e capire bene se può effettivamente dare un valore aggiunto o, per esempio, decretare la morte completa di un territorio.

    Solo nell’ultimo anno da Gangi sono andate via intere famiglie. 15 famiglie in un solo anno. Vuoi per lavoro, vuoi perché comincia ad essere invivibile tutta la situazione.

    Pietro: Il fenomeno nuovo che le Madonie non hanno mai vissuto prima a mio parere è che prima le persone che erano in cerca di lavoro se ne andavano, poi tornavano d’estate, venivano a trovare i genitori, i parenti. Adesso si è creato un fenomeno che fino a quando ero piccolo io non si sarebbe mai immaginato.

    Oggi succede che per questioni varie, relative al lavoro, relative all’insicurezza – non è da sottovalutare anche l’insicurezza sanitaria – partono i genitori a trovare il figlio. Questo è un dato nuovo: quando io ho fatto l’università, per me era scontato che l’università si facesse a Palermo. Si faceva qui. Era scontato che le superiori le avrei fatte se non al mio paese, nei paesi vicini. Oggi già alla scuola superiore comincia ad essere normale che un ragazzo delle Madonie vada fuori.

    Il problema è che questo territorio è spesso oggetto di progetti che non vengono dalla conoscenza del territorio, vengono da idee preconcette, precostituite: il borgo incantano, il presepe, concordo perfettamente.
    Spesso non si dà ascolto alle esigenze reali del territorio. Di cosa abbiamo bisogno, di un ospedale? E questo ospedale come deve essere fatto? Non vogliamo la luna, vogliamo che se uno sta male possa essere operato qua. Che quello che ci spetta in termini di diritto alla salute ci venga dato.

    Giuseppe: Se vengono a mancare i servizi fondamentali, qualsiasi progetto di rilancio, recupero dei centri storici e dei cosiddetti borghi o dei paesi delle aree interne, è vano. Nessuno va ad abitare dove non trova servizi.
    Rispetto ai giovani che emigrano, noi non possiamo costringere nessuno a rimanere, ma dobbiamo mettere i giovani in condizioni di scegliere se vogliono tornare, oppure fare la loro strada fuori. Al momento la scelta è obbligata. Il problema è che chi va fuori poi non torna più. A parte casi rari di pazzi scellerati come me che ha lasciato un contratto a tempo indeterminato in un’azienda metalmeccanica, ma questo è un altro paio di maniche.

    Cos’è il vostro gruppo “Controcanto”?

    Pietro: Una pagina di informazione che nasce da una constatazione: spesso le comunicazioni, anche a livello di testate locali, sia fisiche che online, non fanno inchiesta. L’ospedale è un problema, la scuola è un problema, quell’altra cosa è un problema. Noi riteniamo che le cose siano collegate.

    Giuseppe: Controcanto nasce anche dall’esigenza di denunciare un fatto: i processi decisionali sono stati sottratti dal dibattito pubblico. Sono stati spostati in altre sedi, dove per altro ormai non sono più neppure i Sindaci a decidere. Con la scusa dell’aggregazione territoriale e della definizione tecnica dei parametri e della progettualità che competono al territorio, i più importanti processi decisionali sono stati spostati in altre sedi, e ormai sono quasi competenza dei tecnici incaricati di seguire questi processi, piuttosto che dei politici, dalle persone votate dal territorio. Per cui la cittadinanza viene a conoscenza dei fatti e dei progetti che li riguarda soltanto quando questi sono portati a termine. Esce il comunicato stampa «Realizzato il progetto di X milioni per il rifacimento dell’opera Y».

    Ma chi ne sapeva niente? Chi sapeva che si stava facendo questa cosa? Perché io non sono potuto intervenire per dire «scusate perché questo milione X non lo investiamo per fare quest’opera piuttosto che quest’altra?».


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