• Risciacquare i panni in Oreto

    Risciacquare i panni in Oreto

    di Lanfranco Caminiti

    Il professore Franco Lo Piparo, filosofo e linguista, ha testé pubblicato Sicilia isola continentale – Psicanalisi di una identità, Sellerio, il cui succo è questo di qua: la Sicilia non esiste (e se esiste è come il Molise); l’identità siciliana è un fantasma, un niente che si crede qualcosa, una luna riflessa nel pozzo scambiata per vera e in pericolo, mentre è placida lassù nel cielo. Per certificare questo, Lo Piparo colpisce al cuore le cose: la lingua (e il contorto rapporto – da inconscio freudiano, ci si dice – dei siciliani con essa). La lingua siciliana non esiste, e se non esiste lingua siciliana non esiste nazione siciliana, datosi che ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt.
    L’identità siciliana sarebbe un mito letterario del secondo Novecento – da Pirandello a Sciascia, passando per Tomasi – costruito su una ipotesi di “conservazione della propria identità” attraverso i secoli e le dominazioni di chiunque vi abbia messo piede.


    In realtà, sostiene Lo Piparo, esisterebbe un’unica vera frattura storica e linguistica: l’arrivo dei Normanni, che cancellano la dominazione araba, latinizzano e cristianizzano e popolano l’isola e inseriscono la Sicilia, da allora e per sempre, nella storia d‘Europa, di cui l’isola è frammento.
    Non c’è alcuna “alterità” storica della Sicilia, soprattutto non c’è alterità linguistica: il volgare siciliano ancora oggi praticato è erede del siculoitaliano del Trecento, contemporaneo e affine strutturalmente al toscoitaliano: i copisti toscani adattarono la lingua dei poeti della Scuola siciliana, come i copisti siciliani adattarono poi le formule del toscoitaliano che, per il prestigio letterario, divenne la lingua italiana. Il siciliano cioè – ecco il senso del paradosso – nasce italiano.


    E infatti, spiega Lo Piparo, tutti in Italia capiscono Camilleri; e come potrebbe essere che intendono i cabbasisi e il vigàtese, e ridono, se non praticassimo una medesima struttura linguistica?


    Ma l’ambizione decostruttiva di Lo Piparo mira ancora più in alto, verso la luna: i difensori della specificità siciliana hanno sempre voluto un riconoscimento istituzionale d’essa (benché mai, né autonomisti né indipendentisti abbiano rivendicato il riconoscimento del siciliano come lingua), e questo riconoscimento si traduceva nella richiesta di “risarcimento”, in particolare dopo l’Unità d’Italia – cosa che avvenne con il “miracoloso” statuto di autonomia regionale del ’46 e che poi si è perpetuato in una ininterrotta questuanza, tramite cui si sono costruite fortune politiche, economiche e accademiche; il risultato è che proprio questo risarcimento “a fondo perduto” si è concretizzato in una subalternità. Lo Piparo emblematizza le due Sicilie – l’una che vuole solo essere sfaccendata e l’altra operosa, l’una che consuma l‘altra che produce – in due personaggi verghiani: il giovane ‘Ntoni dei Malavoglia, che sogna la città dove far nulla da mattina a sera e mangiare pasta e carne; e il Mastro don Gesualdo che pensa sempre a terre da seminare e eserciti di mietitori; e sconsolatamente conclude: «ci ha perso la Sicilia di Mastro don Gesualdo, ci ha perso quel frammento d’Europa chiamato Sicilia».


    È a questo punto che mi sono chiesto: perché Tomasi di Lampedusa non ha scritto I Buddenbrook invece del Gattopardo? E ancora: Max Weber, per dire, poteva nascere a Valguarnera Caropepe invece che a Erfurt, datosi che entrambe le cittadine sono frammenti d’Europa?


    Come è possibile il rimpianto di una classe sociale – la borghesia produttiva – che in Sicilia non è mai esistita? L’industrializzazione dell’isola avviene a metà Ottocento a mezzo “gli stranieri”: inglesi, svizzeri, francesi, tedeschi, che ne sfruttano risorse naturali (dalle viscere della terra fino alla superficie) trasformando vino, olio, arance, limoni, sambuco, zolfo e mill’altre cose in ricchezza loro propria: è una industrializzazione “di rapina” o, se si preferisce, “corsara”: il fatto che portino capitali, tecnologie e know-how non cambia la sostanza delle cose. I ricchi siciliani, i baroni medievali benché ormai parte consustanziale dell’Europa continentale, rimangono legati al latifondo, alla coltivazione primitiva, dove la manodopera è poco più che schiava fin da bambino; e questo resterà fino a oltre la metà del Novecento, quando le lotte bracciantili rovesceranno lo stato delle cose. Non che prima non ci avessero provato – ma ne era venuto sempre l’esercito e le stragi di contadini: il latifondo era intoccabile, per l’ordine delle cose, perché pilastro del governo politico dell’Italia, di ogni governo politico, dall’Unità al fascismo alla prima Repubblica. La borghesia siciliana è un ossimoro. L’unica storia di borghesia produttiva è quella dei Florio, e della loro Palermo Belle Époque, con la marineria e il commercio, con la fabbrica metallurgica e la tonnara, e feste e ricevimenti da stupire il mondo, ma è una storia talmente singolare – improduttiva, verrebbe da dire – da essere diventata fabula, mito. Fiction, dicono gli americani: finzione.


    E qui, tornando al nocciolo delle cose, tocchiamo il punto dolente: il siciliano comunemente inteso oggi è una lingua finta, una lingua che non esiste in natura. Una lingua “sporca”, inventata e modellata, per raggiungere un effetto comico. «Di persona pirsonalmente lei è, dottore?» – e questo è Catarella, chi non lo conosce, chi non lo capisce? Addirittura la Treccani si è spesa autorevolmente: «La lingua di Catarella è uno splendido e raffinato pastiche, che spazia tra italiano popolare, italiano burocratico, italiano formale e dialetto, generando copia di malapropismi, paretimologie, storpiature, deformazioni, misunderstanding, tante volte irresistibili». La Treccani sembra cioè dare assolutamente ragione al professor Lo Piparo: la lingua di Catarella è italiano (toscoitaliano) e la mescolanza tra espressioni, locuzioni e dialetto (volgare siciliano) serve solo a creare una “irresistibile” comicità. Trovo assolutamente comico, a esempio, che ci siano i “turisti di Vigàta” – quelli che vengono in Sicilia per visitare un luogo immaginario e che naturalmente si aspettano che gli abitanti di quel borgo, che fa scambio con un altro, parlino quella loro stessa lingua immaginaria, il vigàtese, come fossero comparse di una messinscena: una comunità di lingua d’invenzione, una comunità immaginaria.


    Io non so se tra le professioni liberali siciliane (avvocati, architetti, medici, filosofi, linguisti e quant’altro) sia in uso “la lingua di Catarella” – se fosse, questo ne farebbe un raffinato pastiche, ma non una borghesia. Di certo non è la lingua comunemente in uso al Capo e a Ballarò, a San Berillo e al Librino, nelle Madonie o nel Modicano: e qui, vi posso assicurare, c’è poco da ridere oggi.


    Il siciliano esiste, erede di stratificazioni linguistiche che si sono sedimentate nel tempo a seguito delle dominazioni che si succedevano (che sono sempre, anche, dominazioni linguistiche), e che non è una lingua pura, incontaminata, anzi – tra grecismi, latinismi, arabismi, francesismi, spagnolismi, italianismi (dimentico sempre qualcosa, qualcuno). È una lingua viva e vivente, perché praticata, comunemente usata nella vita da una comunità di parlanti.
    L’uniformazione linguistica d’Italia avviene con la sua Unità e segue il contemporaneo processo di uniformazione monetaria (a me è sempre sembrato interessante pensare la relazione tra circolazione monetaria e circolazione linguistica; per dire: esisterebbe la globalizzazione attuale senza l’uso dell’inglese, e questo ci fa tutti anglosassoni? e ancora: come è possibile costruire un’Europa dalla moneta unica che non abbia una lingua europea, o la parliamo già a nostra insaputa?) e si fa a mezzo di uno “scangio”, di uno scambio, tra lingua “pubblica”, “statale”, diciamo così, e lingua “privata”, “sociale”, diciamo così. Una doppia lingua come fosse la circolazione contemporanea di una doppia moneta – cosa che peraltro proprio in Sicilia si sperimentò, all’arrivo degli alleati, con le AM-lire che, benché qualcuno lo sperasse, non ci fecero mmericani.


    Piuttosto della lacunosità espressiva del siciliano (dialetto) a petto della ricca complessità dell’italiano (lingua) – cosa che sembra convincere Lo Piparo – io propenderei viceversa per l’incontrario; la potenza letteraria di Terra matta di Vincenzo Rabito (citato con il Bordonaro de La spartenza) ci sembra raccontare questo: la lingua vivida di Rabito è la lingua “giusta” per raccontare la drammaticità del Novecento. Direi che è proprio questo che ne fa un capolavoro. Lo straordinario successo del libro – dovuto anche all’eccellente lavoro degli editor – nonostante la “fatica” della lettura, anzi propriamente per la fatica della lettura, ne è la migliore conferma. Rabito (un inalfabeto!) si iscrive nella lunga sequenza dei grandi scrittori siciliani – Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello, Tomasi, Piccolo, Vittorini, D’Arrigo, Sciascia, Consolo, Bufalino (dimentico sempre qualcosa, qualcuno) – che dalla Scuola poetica di Federico fanno grande la lingua e la letteratura italiana.


    Su questo però sono assolutamente d’accordo con il professore Lo Piparo: la Sicilia è parte d’Europa, lo è sia per antica che contemporanea storia, e non si capisce perché praticare una propria lingua, rivendicare una propria lingua dovrebbe farci meno europei o antieuropei. Direi anzi che la Sicilia dovrebbe essere orgogliosamente parte d’Europa; manca forse un po’ il viceversa, che anche l’Europa si senta un po’ siciliana. Ma ci possiamo lavorare. Nzèmmula macari.

    Gennaio 2025


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