Riportiamo l’intervento di Tiziana Albanese, Università degli Studi di Palermo, alla tavola rotonda “Lingua, dialetto, dialetti: le diverse prospettive”, organizzata dal Centro Studi Filologici e Linguistici Siciliani
L’intervento
L’intervento di oggi vuole entrare nel merito delle critiche rivolte e mettere dei punti fermi rispetto al nostro lavoro e alla nostra prospettiva. Nostra nel senso di agita da noi, insieme a colleghi universitari, linguisti, associazioni che si occupano di valorizzazione linguistica e parlanti.
Entro subito nel merito della questione, ovvero della diversa idea che abbiamo di cosa sia una lingua e di chi abbia titolo per parlarne. Più volte, anche in questi giorni, ho sentito dire: di lingua possono occuparsene solo i linguisti perché, cito testualmente, il sol fatto di saper respirare non fa di me uno pneumologo. Un paragone che definirei quantomeno discutibile per affrontare un tema tanto complesso come quello intorno alle lingue.
Il linguaggio è dotato, infatti, di capacità metalinguistica: gli esseri umani non solo parlano, ma riflettono sul proprio parlare, lo valutano, operano scelte, lo difendono o lo abbandonano. E questa capacità non è appannaggio degli specialisti: è parte integrante dell’esperienza di ogni parlante. Il discorso sul respiro, in effetti, può esaurirsi nello spazio clinico. Non si può dire lo stesso di quello sulle lingue, perché non riguarda solo il “funzionamento” del sistema, bensì il suo valore sociale, simbolico, politico.
Quella linguistica è una questione profondamente democratica e tale deve essere il dibattito intorno ad essa. Questo non significa negare il ruolo della linguistica – che è fondamentale – ma rifiutare l’idea che la scienza del linguaggio esaurisca il discorso sulla lingua.
Ci sono certo questioni sulla lingua che vanno affrontate da una prospettiva eminentemente scientifica, tra accademici insomma, ma per farlo bisognerebbe partire dal rifiuto dell’idea monolitica della linguistica: questa disciplina viene annoverata, infatti, tra quelle che vengono definite “scienze deboli”, in quanto i risultati raggiunti dagli studi in questo ambito alcune volte non sono verificabili e/o ripetibili, e perché la posizione su determinati argomenti non è univoca all’interno del panorama accademico mondiale. Le definizioni dei termini “lingua” e “dialetto” ne sono certamente una dimostrazione: un idioma che può essere considerato una lingua da alcuni accademici, può essere considerato un dialetto da altri; e il siciliano non sfugge a questo dilemma.
L’approccio del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani è solo uno dei possibili: è quello, per così dire, basato sul criterio della funzionalità; se ci si sposta in altri ambiti accademici, ad esempio, prevale l’approccio sul principio dell’intercomprensione e qui l’esito delle definizioni sul siciliano risulta opposto. Non approfondisco la questione per mancanza di tempo, ma la cito per dire: non è scientifico chi lo chiama dialetto e antiscientifico chi lo chiama lingua: gli uni e gli altri si stanno solo rifacendo ad approcci accademici diversi.
Un altro punto critico che viene spesso sollevato – e che ha sempre a che vedere con chi ha titolo per parlare di lingua – riguarda il coinvolgimento nel dibattito della politica. Ma la tutela di una lingua, del siciliano nel nostro caso, è una questione sociale, è una “questione politica”. Perché è la politica, l’interesse collettivo per la cosa pubblica (e quale
“cosa pubblica” c’è, più pubblica della lingua?) – e l’amministrazione, ovvero “la messa a terra” delle disposizioni – che ha gli strumenti e i mezzi e, soprattutto, il “mandato popolare” per intervenire. Non è forse la politica che interviene sulle questioni della sanità? Non è la politica che interviene sulle questioni della mobilità? O è l’ordine dei medici e quello degli ingegneri?
Le scelte politiche non devono certo creare dal nulla le dinamiche linguistiche – e questo è chiaro – non le studiano, forse – e non mi pare questa la pretesa – ma le orientano, le accompagnano, le rendono possibili o impossibili. Coinvolgere i consigli comunali, la Regione significa richiamare le istituzioni al compito di programmare, di dare indirizzi a trasformazioni che sono già in atto nella società. Non si tratta di “questa o quella parte politica” ma della politica nel suo senso più ampio.
Ma su questo, sono certa di trovare l’assoluta condivisione da parte degli accademici del Centro Studi, altrimenti non si spiegherebbe la legittima richiesta di maggiore attenzione da parte della politica regionale, ribadita anche nell’introduzione a questo convegno, la presenza di due onorevoli a questo convegno – di Valentina Chinnici oggi – né l’impegno profuso dal prof. Ruffino nella stesura della legge 9 del 2011.
Chi, infine, come ho sentito anche in questi giorni, invita la politica a occuparsi di cose più importanti offre un assist clamoroso ai nostri politici che del benaltrismo fanno già una prassi: c’è qualcosa di più urgente di cui occuparsi è la scusa, infine, per non fare nulla. Perché, se davvero accettiamo l’idea che ci si debba occupare solo di ciò che è considerato prioritario in un dato momento, allora dovremmo trarne le conseguenze fino in fondo: chiudiamo i Centri di studio sulle lingue – o sui dialetti, se preferite – e apriamo associazioni contro le buche e i ritardi dei treni; eliminiamo ministeri e assessorati alla cultura, e raddoppiamo quelli alla sanità, alle infrastrutture, all’economia.
Il lavoro di chi ha promosso la circolazione della delibera comunale, da cui è scaturito il Ddl regionale, non nasce da un’astrazione teorica, né da una nostalgia identitaria – per quanto comprendiamo sia più semplice liquidare tutto agitando lo spettro di uno «spaventoso aggravio» e disegnando foschi scenari di autonomismo, indipendentismo, secessione, leghismo, razzismo. Il nostro lavoro nasce da spinte che provengono dal basso, da alcune preoccupazioni e volontà che attraversano la società siciliana sempre di più negli ultimi anni:
– la paura che il siciliano scompaia;
– il desiderio di trasmetterlo ai figli;
– la volontà di impararlo da parte di chi non lo ha ricevuto in famiglia;
– il bisogno di vederlo riconosciuto come qualcosa che ha valore, dignità, futuro.
Non stiamo “inventando” il bisogno di una lingua. Stiamo rispondendo a un’esigenza sociale, che esiste indipendentemente dalle classificazioni accademiche: preservare, trasmettere, rendere visibile il siciliano. Ce lo confermano le centinaia di e-mail e messaggi che riceviamo quando pubblichiamo contenuti in siciliano: soprattutto tra i giovani c’è voglia di riappropriarsene.
Come farlo? Per noi la risposta è questa: dandogli un riconoscimento istituzionale perché finché un patrimonio linguistico non ha accesso ai domini pubblici è strutturalmente fragile, anche se ancora parlato.
E da qui veniamo a un altro nodo che preoccupa terribilmente: entrare nei domini pubblici presuppone un processo di standardizzazione.
Le critiche su questo piano mi sembrano poggiare essenzialmente su due pilastri: il timore che questa standardizzazione sia calata dall’alto e la constatazione di una forte fluidità del plurilinguismo individuale nella Sicilia contemporanea.
Sul primo: si dà per scontato che ogni riconoscimento istituzionale della lingua siciliana implichi necessariamente un processo accelerato, artificiale, imposto dall’alto, destinato a fallire e a schiacciare le varietà locali. Ma, a mio avviso, questa è una rappresentazione caricaturale delle politiche linguistiche.
Nessuna lingua nasce standardizzata. E nessuna standardizzazione è naturale o immediata. È sempre un processo graduale, negoziato che può assumere forme molto diverse: forte e centralizzata, pluricentrica, funzionale, aperta. Quello di cui parliamo noi è un processo, che deve coinvolgere parlanti e specialisti, di produzione di un modello ortografico impiegabile soprattutto per la scrittura: un modello flessibile, che non imponga scelte rigide, che non provenga da una sola varietà diatopica (o da un solo dialetto), ma proceda da un complesso incrocio di variabili, che vanno dalla frequenza d’uso all’attestazione letteraria fino ad arrivare all’etimologia. È inutile ripetere ironicamente, banalizzando la rilevanza del dibattito: si dirà “strummula”, “tuppettu” o (babbiannu!) “trottula”. Quale variante diventerà, per così dire, standard? Non lo sappiamo, non siamo ancora manco all’avvio di questo lavoro. E se fosse “strummula”, i catanesi smetterebbero di dire “tuppettu”? No e non c’è alcuna evidenza scientifica del contrario. C’è l’evidenza che neppure con l’italiano è successa una totale eliminazione delle varianti: al nord si dice foruncolo e al sud si dice brufolo. Un’altra evidenza è che uno dei motivi per cui non si usa il siciliano, oltre lo stigma, è la paura di non saperlo fare in maniera corretta soprattutto nello scritto. Non è una gran cosa vedere bloccare anche solo la discussione sul tema per principio o per timore.
Sul secondo pilastro, ovvero sulla fluidità del plurilinguismo individuale, si descrive uno scenario estremamente dinamico, fatto di mescolamenti, sovrapposizioni, acquisizioni tardive, nuovi contesti d’uso. Tutto vero. Ma a questo punto sentiamo svolgere un passaggio logico discutibile: questa fluidità viene usata come argomento contro qualsiasi forma di pianificazione.
Eppure, se prendiamo sul serio la sociolinguistica internazionale, è vero esattamente il contrario. È proprio nei contesti ad alta mobilità e ad alta complessità linguistica che le politiche linguistiche diventano necessarie, non per irrigidire, ma per rendere possibile l’esistenza degli idiomi e quindi la scelta.
Ed è singolare che l’istituzionalizzazione del sapere, l’università, si opponga a un processo istituzionale di riconoscimento d’una lingua schierandosi dalla parte dello “spontaneismo”. Un plurilinguismo lasciato interamente a se stesso non è automaticamente equo né virtuoso.
C’è un’argomentazione ancora più semplice che spiega la nostra prospettiva. Ci si trincera dietro l’assunto: è un dialetto e “dialetto” è una parola bella; tutto lo sforzo da anni e anni è indirizzato ad affermare dialetto ha la stessa dignità di una lingua. Ma questa parità a livello dignitario non esiste per la popolazione generale e lo stesso mondo accademico fatica a scardinare questa convinzione popolare: i bambini non lo parlano, e subiscono ancora rimproveri se lo usano a scuola o in famiglia.
È legittimo chiedersi: che forse la strada sia un’altra? Ecco perché riteniamo che l’utilizzo del termine “lingua”, per il prestigio che anche la popolazione comune assegna a questa parola, si rivela di capitale importanza.
Anche perché i “processi spontanei” dei parlanti siciliano vanno già nella identificazione di una lingua comune, di una appartenenza, di una identità. Se un ragazzo di Gangi o del Librino o di Ballarò o di Capizzi va al nord e dice qualcosa nella sua “lingua territoriale”, se glielo chiedono non dirà che ha parlato l’idioma di Gangi o del Librino o di Ballarò o di Capizzi, dirà che ha parlato “in siciliano”.
Ci aspetterebbe dagli specialisti, come dalla politica, un intervento che accompagni e istituzionalizzi questa identificazione che già esiste. Il sospetto è che il diniego degli accademici del Centro Studi abbia più a che fare con questioni ideologiche che specialistiche: che il “non detto” sia proprio questo: l’insistenza a tenere “frammentata” la
lingua siciliana in un “plurilinguismo territoriale”, la resistenza e il monito a non intraprendere un percorso di istituzionalizzazione sta nella pregiudiziale negazione di una “identità regionale siciliana” – che sarebbe un vuoto, una invenzione del Novecento letterario – nel timore che questa identità sia lo slancio a una “separatezza” dall’italiano, che è poi una separatezza politica dall’Italia.
Dircelo esplicitamente ci permetterebbe di allineare il piano dei discorsi: non il discorso scientifico da un lato e quello ideologico dall’altro. Ma due discorsi ideologici contrapposti. Dircelo esplicitamente ci permetterebbe di parlarne e scoprire che magari si conviene sulla critica della declinazione del concetto di “identità” come un sistema monolitico e che non accetta le differenze, ma non sulla soluzione, che per noi non è la negazione della sua esistenza o lo scongiuramento di ogni processo che la afferma, come quello linguistico. La soluzione è l’accettazione della polifonia culturale della Sicilia come sua identità. Questo essere siciliani vuol dire essere una combinazione inedita del mediterraneo, che è il nostro legame e non il nostro confine, la nostra lente e non il nostro muro.
Il più importante fenomeno di plurilinguismo in Sicilia, non a caso, è dato dagli immigrati: essi parlano la loro lingua dentro la loro comunità, parlano l’italiano nelle relazioni “ufficiali” (la questura, la sanità, il comune, le pratiche, la scuola per i figli), parlano il siciliano nei quartieri dove vivono e per relazionarsi con gli altri immigrati di altra lingua e nazione; e questo è vero soprattutto per i bambini a scuola e nella loro relazione parentale, familiare, e poi con l’istituzione scolastica (le maestre, gli insegnanti), e infine con i loro coetanei. Ma è evidente che per questi bambini, nati in Sicilia, siciliani anch’essi – il siciliano rimane una lingua “minore”, forse la lingua dei giochi, mentre l’italiano rimane la lingua delle istituzioni, della politica, del potere. La lingua è politica, la lingua è potere. È vero, purtroppo, anche il contrario: ogni potere autoritario si preoccupa di cancellare le lingue. Ma in questa condizione degli immigrati – per i quali il siciliano è la lingua minore, della vita quotidiana, e l’italiano la lingua del potere – possiamo rispecchiare la condizione di ogni siciliano. Noi siamo immigrati nella nostra stessa lingua. Quello che io voglio, quello che noi vogliamo è restituire alla lingua siciliana il suo potere politico.



