• Il Sette e Mezzo: una rivolta anti-unitaria e di trasformazione sociale

    Il Sette e Mezzo: una rivolta anti-unitaria e di trasformazione sociale

    di Elio Di Piazza

    Dal 16 al 22 settembre 1866 Palermo fu teatro di una delle sollevazioni popolari più significative e, forse per questo, meno divulgate. La città, accogliendo il richiamo dei contadini provenienti dai paesi vicini, insorgeva contro le istituzioni locali e nazionali costituite in seguito all’annessione del 1861.

    La premessa

    Diversi segnali s’erano avuti negli anni precedenti, nel corso delle proteste popolari contro il servizio militare obbligatorio e l’esercito regio, nelle marce contro il carovita, nelle lotte di contadini e braccianti. La crisi agraria era esplosiva in più parti dell’isola e le sommosse non si contavano più: a Paternò, a Biancavilla, a Belmonte Mezzagno, Sciacca, Alcamo, Castellammare del Golfo.

    La campagna si manifestava come spazio geopolitico dello scontro tra latifondismo e bracciantato, tra espropriazioni e occupazioni di terre; scontro che non aveva soluzione, date le dinamiche della rendita fondiaria e il loro spiccato carattere antipopolare. La recente occupazione coloniale non faceva che rendere sempre più acuti i conflitti sociali. Il Regno italico, nello sforzo di rafforzare e industrializzare il Nord del paese, aveva bisogno di mano d’opera a basso costo e di soldati; la campagna siciliana costituiva il più grosso bacino di approvvigionamento, tanto più grosso quanto più grande era l’esercito di riserva dei braccianti.

    La questione agraria 

    Nei primi mesi del 1866 il governo aveva emanato alcuni decreti per la confisca dei beni ecclesiastici; in particolare, in Sicilia quei decreti avrebbero inferto il colpo mortale ai contadini occupati nelle grandi tenute della Chiesa. Non è un caso se il Sette e Mezzo ebbe origine nella diocesi di Monreale e vide battersi, a fianco dei contadini, parte del clero; il vescovo monrealese Benedetto d’Aquisto, che il generale Raffaele Cadorna nei giorni della rivolta avrebbe definito «il noto brigante D’Acquisto», pagò col carcere il suo appoggio alla protesta contadina.

    La questione agraria era esplosiva. Il numero di braccianti diminuiva per effetto del concentramento dei latifondi, delle continue confische e del depauperamento dei terreni agricoli più piccoli; i contadini espulsi erano condannati all’emigrazione o all’arruolamento nell’esercito savoiardo. Le sommosse di Alcamo e di Marsala del 1862, represse nel sangue dalla brigata Alpi, avevano visto le masse contadine opporsi alla leva obbligatoria. Il colonnello Govone rispose rastrellando le campagne, isolando i paesi in rivolta, perquisendo gli abitanti.

    La feroce repressione aveva fatto aumentare il numero delle cosiddette “bande di briganti”, molte delle quali altro non erano che formazioni per l’autodifesa dei latitanti. In questo contesto maturò la sollevazione del settembre 1866; un contesto di rivolte delle campagne, di briganti ostili al Regno d’Italia ed al suo esercito, di durissima repressione.

    L’inizio della sommossa

    La mattina del giorno 15 i monrealesi furono svegliati da alcuni colpi di fucile e dai richiami alla mobilitazione. Le piazze si riempivano di contadini decisi a ribellarsi, a scendere in città e portare la rivolta nella capitale dell’isola. Monreale aveva dato i natali a briganti come Turi Miceli, di origine contadina e convinto socialista e internazionalista; a Monreale erano attive le bande Minneci, Cuccia, Spinnato e molte altre se ne formavano di continuo. Il 15 settembre si levò un vento di sommossa, le bandiere rosse e i ritratti di Santa Rosalia davano alla sommossa una precisa impronta liberatrice, molti palazzi pubblici furono presi d’assalto.

    La notte di quello stesso giorno un gruppo di un centinaio di rivoltosi, insieme ad altri provenienti da paesi vicini come Misilmeri e Villabate, si acquartierava sotto le mura di Palermo. L’indomani sarebbero entrati a Palermo; la campagna accerchiava la città.

    Il mattino del 16, i rivoltosi entrarono nei quartieri del Borgognoni e della Vittoria, distanti alcune centinaia di metri da Porta Nuova, dov’erano in guardia delle armi alcuni soldati. Saccheggiarono tutto, comprese armi e cavalli, distrussero archivi e suppellettili, fecero prigionieri sessanta soldati, quindi entrarono in città chiamando il proletariato urbano alla ribellione. Molti erano già pronti a rispondere al richiamo, altri si sarebbero uniti di lì a poco. Nella tarda mattinata venne attaccato il Municipio e fu dato l’assalto alle principali stazioni dei carabinieri.

    I proseliti della rivolta

    Intanto nei paesi vicini, a Misilmeri come a Ogliastro, la rivolta faceva proseliti. Giovanni Meli così ricorda la Misilmeri di quei giorni: «La sera vi fu generale illuminazione e costituito un comitato il cui primo atto fu quello di chiamare il popolo alle armi per liberare i detenuti e correre in soccorso di Palermo.

    Tutto il paese rispose all’appello e andò al deposito di armi della Guardia Nazionale, che era stata disciolta pochi giorni prima per decreto reale. Il picchetto di truppa che custodiva il deposito dovè cedere innanzi ad una turba di oltre duemila, in gran parte armati, e venne fatto prigioniero. Fu saccheggiato il locale ; furono prese diverse centinaia di fucili, le relative munizioni, e con queste si armò la Guardia Siciliana. Dopo di questo la folla si spinse alla caserma dei Reali Carabinieri ove si erano ritirate anche le guardie di sicurezza pubblica. e tumultuando intimò loro di arrendersi». Montelepre insorse il 17, insieme a Torretta, Borgetto, Lercara e Termini Imerese.

    La presa di Palermo

    L’ingresso a Palermo delle “bande” rivoluzionarie, fu un segnale subito raccolto dalla popolazione sempre più immiserita dalle politiche nazionali. In quegli anni, nelle aree urbane si registrava una fortissima disoccupazione; circa l’80% dei giovani non trovava lavoro e lo scontento era maturo per cogliere l’occasione di un riscatto. Il 18 settembre, a Palermo, si costituì un Comitato rivoluzionario e sul Palazzo di Città venne bruciato il tricolore crociato dei sabaudi e un ritratto di Garibaldi; sul tetto del Municipio fu fatta sventolare la bandiera rossa dei rivoluzionari.

    Segretario del Comitato fu il mazziniano (e futuro bakuniano) Francesco Bonafede che svolse il ruolo, in realtà, di capo effettivo e di autore dei principali proclami. La presa di Palermo per 7 giorni e mezzo era animata in prevalenza da repubblicani, ma non mancavano mazziniani, indipendentisti e anarchici. Capi della rivolta erano, oltre a Bonafede, Di Miceli e Badia, quest’ultimo di sicura fede repubblicana e attivista della Prima Internazionale. Di Miceli, invece, sarebbe rimasto ucciso da un colpo di mitraglia sparato dai soldati contro un gruppo di rivoltosi che tentavano di aprire le prigioni e liberare i compagni reclusi.

    La crescente presenza di colonne di truppe regie armate di obici e fucili, non aveva fatto altro che aumentare la rabbia del popolo, che non tardò a contrattaccare; fu saccheggiata la casa del sindaco Rudinì ai Quattro Canti, circondato il Palazzo Reale dov’era il comando dei Carabinieri.

    Lo stato d’assedio

    Dopo vari, e vani, tentativi di spegnere la rivolta popolare, fu dichiarato lo stato d’assedio. I bersaglieri entrarono in azione la mattina del 21 riuscendo a sgomberare il Municipio, che però nel pomeriggio tornò nelle mani del Comitato. La mattina del giorno successivo, vennero avvistati vascelli carichi di carabinieri e corvette armate di potenti cannoni; la città fu bombardata fino al pomeriggio del 23 settembre.

    Sul tetto del Municipio tornò a sventolare il tricolore crociato, ma sul terreno i morti si contarono a migliaia. Fu una rivoluzione di breve durata conclusasi con una sconfitta militare. Come dicevano i contemporanei:

    Lu vittimu, lu persimu di vista

    Lu Setti-e-menzu durò veru picca.

    Una Comune siciliana

    Sebbene di breve durata, il Sette e Mezzo costituisce una delle più interessanti pagine della storia popolare siciliana: una rivoluzione accesa dai contadini e subito condivisa dal proletariato urbano. Una rivoluzione che muoveva nel senso dell’Indipendenza dal Regno d’Italia e, al tempo stesso, della trasformazione repubblicana e socialista.

    Sono proprio gli ideali di giustizia e di affrancamento sociale a far avvicinare il Sette e Mezzo alla Comune di Parigi del 1871. Già soltanto leggendo i diversi proclami del Comitato Provvisorio si comprende la doppia natura della “rivoluzione” del Sette e Mezzo: anti-unitaria e di trasformazione sociale. Spogliati dalla politica predatoria del Regno d’Italia, i siciliani erano finiti sotto una nuova forma di oppressione economica e militare,  «schiavi di una masnada di vili», come si legge nel primo comunicato del Comitato Provvisorio.

    Quello che passò alla storia

    I sette giorni e mezzo della Sicilia post-unitaria ci vengono raccontati in vari modi. C’è chi parla di una settimana di sollevazione guidata dagli immancabili baroni; chi assegna un ruolo determinante alla Chiesa spodestata; chi considera quelle giornate una manifestazione spontanea, priva di traguardi e vistosamente “plebea”, chi si limita a elencare le malefatte contro i carabinieri.

    Punti di vista, certo, ma per effetto di simili letture rimane nascosto l’orizzonte autentico della rivoluzione; restano celate sia le ragioni sociali che accesero la miccia, sia l’opposizione ad una oppressione che aveva preso il posto di quella borbonica; restano nascoste le bandiere rosse che sventolavano accanto a quelle più “locali” della santa patrona.

    Noi crediamo sia giunto il momento di fare chiarezza delle distorsioni, utili per l’addomesticamento delle coscienze e l’annichilimento culturale, e volte ad impedire la capacità di riconoscersi come popolo, come «un sol uomo che combatte l’inimico comune».

    Quanti sostengono l’importanza delle lotte per l’autogoverno popolare, non possono non vedere nelle giornate del Sette e Mezzo una rivolta contro la spoliazione economica e culturale dell’isola; non possono non riconoscere la vicinanza di quella lotta con le odierne aspirazioni all’Indipendenza che si vanno manifestando in più parti del mondo e, in particolare, in Europa.

    Noi siciliani apparteniamo a quell’esperienza; noi indipendentisti ne siamo gli eredi più fedeli. Meno di un decennio dopo i fatti del settembre ‘66, Sidney Sonnino così concludeva un’inchiesta su quei fatti: «La Sicilia lasciata a sé troverebbe il rimedio: stanno a dimostrarlo molti fatti particolari, e ce ne assicurano l’intelligenza e l’energia della sua popolazione, e l’immensa ricchezza delle sue risorse. Una trasformazione sociale accadrebbe necessariamente, sia col prudente concorso della classe agiata, sia per effetto di una violenta rivoluzione».

    Se ancora oggi ricordiamo il Sette e Mezzo non lo facciamo per mere finalità storiografiche. Al di là della sua breve durata, infatti, quella rivoluzione contiene insegnamenti di carattere strategico; tra questi, la centralità delle lotte contadine nella trasformazione sociale e l’imprescindibile convergenza delle lotte per l’Indipendenza e per l’emancipazione proletaria.


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