• 8 luglio 1960 a Palermo: la rabbia sociale si scontra con le raffiche di mitra

    8 luglio 1960 a Palermo: la rabbia sociale si scontra con le raffiche di mitra
    L’8 luglio 1960 nel capoluogo siciliano si consuma quella che verrà definita la battaglia di Palermo. Durante gli scontri violenti che caratterizzarono quella giornata, quattro siciliani vennero uccisi dalle forze di polizia dello Stato italiano. Le barricate alzate dai giovani scesi in strada a protestare vengono oggi ricordate principalmente per il loro carattere antifascista. Ma la battaglia di Palermo fu molto di più: fu l’esplodere della rabbia che avrebbe caratterizzato gli anni a venire per le disuguaglianze che il boom economico stava generando; fu una battaglia per il lavoro e per il pane. E il sangue versato per la dignità del nostro popolo non va dimenticato.

    I fatti

    Alla fine di marzo del 1960, il democristiano Fernando Tambroni viene incaricato dal presidente della Repubblica Gronchi di formare un governo provvisorio. Il suo governo poggia sui voti del Movimento sociale, a cui Tambroni decide di restituire il favore appoggiando la sua scelta di svolgere a Genova il congresso nazionale della Fiamma tricolore.
    Le manifestazioni contro il governo partono in tutta la penisola, seguite dalla repressione violenta della polizia. È il 30 giugno del 1960 quando le strade di Genova si trasformano in un teatro di guerriglia diffusa. Poi verranno Roma, Reggio Emilia, la Sicilia: a Palermo, Catania e Licata la protesta divampò; i morti saranno in tutto 6.
    A Reggio-Emilia, il 7 luglio, la polizia mitraglia ad altezza uomo, uccidendo 5 persone. Quello stesso pomeriggio la CGIL proclama lo sciopero generale per il giorno dopo. È in questo contesto che ha luogo la battaglia di Palermo.
    Dalle prime ore della mattina la piazza del Politeama di Palermo era presidiata da forze di polizia e sbarrata su tutti i lati: la sommossa si sentiva già nell’aria. Lo spazio fra piazza principe di Castelnuovo e piazza Verdi si trasforma in campo di battaglia, con alberi e panchine divelte a fare da barricata.
    Le cariche violente della polizia, i lacrimogeni e le raffiche di mitra causeranno nel capoluogo siciliano quattro morti, centinaia di feriti e di arresti. Negli scontri morirà un giovane fontaniere, Giuseppe Malleo, di soli 15 anni. Ma quel giorno perderanno la vita anche Francesco Vella, operaio edile e sindacalista, Andrea Gangitano, operaio edile, e Rosa La Barbera, una donna di cinquantun anni colpita da un proiettile mentre stava chiudendo le persiane del suo balcone che si affacciava sul campo di battaglia.
    Dopo che la polizia si ritirò, la repressione continuò in altro modo. Tanti erano stati feriti, identificati e arrestati durante la manifestazione. Processandoli, lo Stato italiano volle condannare l’antifascismo e la rabbia sociale. Per chi sparò in piazza o dette l’ordine di uccidere non ci fu invece alcun processo.

    Per il lavoro, per la terra e per il pane

    Le proteste del luglio 1960 in Sicilia non vollero solo condannare le connivenze fra settori della Dc e il Msi, ma si saldarono alle lotte contro le condizioni materiali di miseria in cui versava l’isola. In Sicilia, lo sciopero si saldò con una forte mobilitazione sociale già in atto: si scendeva in piazza per il lavoro, per la terra e per il pane.
    Protagonisti indiscussi di quella giornata furono i giovani, che si notavano per via delle caratteristiche magliette a strisce, indossate secondo la moda del momento. A quella giornata, d’altronde, non presero parte solo i sindacati, ma anche tantissimi edili, netturbini, disoccupati, lavoratori occasionali e in nero, insieme a tutti coloro che furono esclusi dal benessere del boom economico di quegli anni. Indossando il simbolo della rivolta, i giovani arrivarono dalle borgate e dal centro storico che si stava svuotando.
    Quel momento di presa di coscienza spontanea si provò a infangarlo in tutti i modi. Si disse che la mafia aveva spinto i giovani delle borgate palermitane a scendere in piazza per distruggere tutto. I giornali, così come la classe dirigente di allora, compiansero pubblicamente le aiuole distrutte di via Libertà e non i morti.
    È importante che quelle giornate rimangano vive nella memoria e che il ricordo di questi caduti sia da esempio per tutti noi e ci spingano a lottare oggi per la dignità del nostro popolo.

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