• Attacco al Reddito: la realtà è fuori dai Palazzi e dagli studi televisivi

    Attacco al Reddito: la realtà è fuori dai Palazzi e dagli studi televisivi

    Il 21 novembre il Consiglio dei ministri ha presentato il disegno di legge di Bilancio 2023, che dovrà essere approvato dal parlamento entro il 31 dicembre. Nella manovra di bilancio è stata stabilita l’abolizione del Reddito di Cittadinanza a partire da gennaio 2024. Nello specifico, a partire dal 1° gennaio 2023 i disoccupati percettori del sussidio tra i 18 e i 59 anni che possono lavorare e non hanno a carico minori, disabili o anziani (i cosiddetti “occupabili”), continueranno a ricevere l’assegno mensile per un massimo di 8 mesi – o 7 se verrà approvata l’ultima stretta – durante i quali dovranno seguire un corso di formazione. Chi si rifiuterà perderà il Reddito, così come chi non accetterà la prima offerta di lavoro ritenuta congrua. Dal 1° gennaio 2024, secondo le stime dell’Istat, il Reddito di Cittadinanza sarà tolto a tutti gli individui classificati come abili al lavoro, cioè circa 846 mila persone in tutta Italia, di cui 160 mila risiedenti nella sola Sicilia.

    Descriviamo la realtà, fuori dalle retoriche

    La scelta di eliminare il Reddito di Cittadinanza è in linea con la volontà politica del Governo Meloni di sostenere scelte economiche ultraliberiste, che favoriscono le imprese a tutti i costi senza tener conto delle condizioni dei lavoratori e delle famiglie. Nella manovra, infatti, mancano interventi all’altezza di contrastare questa fase di crisi economica: oltre al RdC, sono state eliminate misure come il contributo all’affitto e il fondo morosità incolpevole, che permettono a 600 mila famiglie di non vivere in mezzo a una strada.
    La definizione stessa di “occupabili”, cioè di persone che possono e devono lavorare piuttosto che poltrire sul divano, nasconde l’obiettivo di uccidere il potere contrattuale e i diritti dei lavoratori. Perché quando un disoccupato siciliano si alza dal fantomatico divano per andare in cerca di un impiego, è costretto a confrontarsi con un mondo del lavoro fatto solo di sfruttamento, precarietà e condizioni disumane. Il lavoro nero è una costante, praticamente la regola nei settori della ristorazione, dell’agricoltura e del turismo che, guarda caso, sono quelli trainanti in Sicilia. Ciò comporta che quasi tutte le offerte di lavoro non prevedano alcun tipo di tutela: si sa a che ora si inizia a lavorare ma non quando si finisce, i contributi per la pensione sono un sogno, la sicurezza sul lavoro una richiesta fuori dal mondo che suscita grottesche risate tra gli imprenditori che millantano di mandare avanti il paese. Oltre a ciò, esistono schiere di lavoratori con un regolare contratto che non se la passano di certo meglio: i salari sono bassi, spesso insufficienti persino a coprire le spese per i bisogni primari.

    Un elemento che nel dibattito pubblico e politico si omette completamente – perché altrimenti verrebbe meno la teoria dei percettori parassiti e fannulloni – è che circa il 40% dei nuclei familiari ha un lavoro, ma percepisce il RdC perché si rimane comunque sotto la soglia di povertà. Come può essere povero chi lavora? Chiedetelo ai governi italiani, compreso l’attuale, che non hanno mai voluto approvare una legge sul salario minimo e permettono che gente venga pagata anche 3 euro all’ora.
    E nemmeno quando la paga è sufficiente le prospettive sono rosee, perché la precarietà è sovrana nella giungla del mercato del lavoro. I contratti a tempo determinato negli anni hanno preso sempre più piede, superando quelli a tempo indeterminato in diversi settori, facendo così vivere milioni di persone nella costante paura di ritrovarsi senza un impiego da un giorno all’altro.

    Nel frattempo, i centri per l’impiego sono un deserto e, nonostante i disoccupati sottoscrivano il patto per il lavoro e presentino i propri curricula, le offerte di lavoro non arrivano mai. La colpa può essere imputata all’inefficienza della macchina burocratica – che è indiscutibile, come attesta il fatto che in Sicilia manchino 280 collaboratori all’ANPAL – ma è anche frutto della volontà dei capi d’azienda di non andare a cercare manodopera nei centri per l’impiego, perché sarebbero costretti a stipulare contratti regolari, che prevedano ferie pagate, versamento di contributi e settimana lavorativa di 40 ore al massimo.

    Un attacco al Sud e alla Sicilia

    Eliminare il Reddito di Cittadinanza da qui a un anno, senza prima intervenire strutturalmente sul mondo del lavoro istituendo un salario minimo che permetta alle persone di vivere dignitosamente, rendendo funzionali i centri per l’impiego, contrastando gli imprenditori che approfittano del lavoro in nero, significa sottoporre milioni di lavoratori a un ricatto. Se finora, infatti, grazie al RdC – che comunque stanzia in media una miseria, meno di 600 euro al mese – i disoccupati si sono potuti “concedere il lusso” di rifiutare offerte di lavoro assimilabili allo schiavismo; l’abolizione del sussidio li obbligherebbe ad accettare qualunque condizione di lavoro, a sottostare a ogni sopruso, a lavorare anche 10, 12 ore al giorno per pochi spiccioli perché non avranno alternativa. «E allora come campavano sti disperati prima del RdC?». Esattamente così: lavorando in nero, facendosi sfruttare e arrangiandosi come potevano. Perché dovrebbero accettare di tornare al passato?

    Allo stato di cose presenti, l’abolizione del Reddito di Cittadinanza si configura come un attacco al Sud e alla Sicilia e lo confermano persino i confronti politici che si stanno inscenando nei principali programmi televisivi, in cui i vari Belpietro, Cruciani, Feltri si lasciano giustamente andare a esternazioni razziste contro campani e siciliani. Lo schema è sempre lo stesso: l’imprenditore del Veneto cerca manodopera e non la trova; il palermitano che percepisce il reddito rifiuta il lavoro al Nord in diretta Tv, confermando la tesi dei “nullafacenti parassiti”. Ma perché un siciliano non dovrebbe pretendere il diritto a restare nella propria terra?
    La gran parte dei disoccupati percettori di Reddito risiede proprio al Sud e nelle isole: soltanto in Sicilia i beneficiari del sussidio sono quasi 700 mila per circa 270 mila nuclei familiari. Sempre in Sicilia si registra uno dei tassi di occupazione più bassi d’Italia, stagnante attorno al 42% da almeno un decennio, ben prima dell’introduzione del Reddito, a dimostrazione del fatto che la misura non ha spinto le persone a restare a casa sul divano: semplicemente il lavoro non c’era neanche prima.

    E non lo dice il percettore di Reddito che il lavoro manca; lo dicono i principali istituti statistici italiani, lo causa la mancanza di piani di investimento e di azioni perequative da parte dei governi centrali volti a colmare il divario con il Nord e a creare occupazione qui, ne dà prova definitiva l’altissimo tasso di emigrazione che appartiene alla storia della Sicilia fin dall’Unità d’Italia. I siciliani partono per cercare lavoro, perché qui non ce n’è per tutti. Sembra che dipenda da loro se sono poveri, se non lavorano. Ma la realtà è che dipende dalle aziende, dal mercato del lavoro che c’è in Italia, dalle politiche dei governi nazionali.

    Le proteste

    Non è un caso se la mobilitazione sociale dei disoccupati che percepiscono il Reddito contro la manovra del Governo Meloni sia partita proprio dalla Sicilia, da Palermo. Il 29 novembre sono scesi in piazza in più di 400, dopo settimane di volantinaggi e raccolta firme nei quartieri popolari della città, per rivendicare la necessità di ricevere un lavoro immediato o la garanzia del sussidio. Si tratta di percettori che avevano già trovato nell’associazione la forma organizzativa, nello svolgimento di attività di volontariato lo strumento di aggregazione e il ribaltamento della retorica dei fannulloni. Ex segretarie o badanti, muratori, animatori turistici, camerieri che hanno sempre lavorato in nero per pochi spiccioli e che hanno trovato nel RdC la via di fuga da sfruttamento e precarietà. Questo 21 dicembre sono tornati in piazza, partendo dal Castello della Zisa, perché non hanno nulla da perdere e tutto da guadagnare.

    Essere costretti a difendere una misura da 570 euro al mese in media, dovendosi scontrare con pregiudizi, insulti e razzismo sfacciato è la miseria a cui ci hanno ridotti. Ma è anche la rivendicazione minima da cui partire per attaccare il mondo del lavoro, i rapporti di produzione e di potere vigenti dentro i posti di lavoro e fuori, nella società. Contro l’ideologia lavorista che ha storicamente influenzato anche gli ambiti di movimento, secondo cui è il lavoro a dare dignità all’uomo, i disoccupati palermitani rifiutano di mettere al servizio del mercato le proprie braccia. La ricchezza prodotta dallo sfruttamento del lavoro non è sottoposta ad alcuna redistribuzione e finisce interamente nelle tasche delle grandi imprese e dei ricchi. Perché contribuire a produrla allora?


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